venerdì 21 dicembre 2007

Some News, Good News
Qualche notizia per scaldare i cuori in questi gelidi giorni di festa

Il Giappone ferma la caccia alle balene

Solo alle megattere e non si sa per quanto tempo, ma è un primo passo verso la fine di una caccia motivata con ragioni di "ricerca scientifica". La vera ragione sta nella prelibatezza delle carni e di questo passo gli ingordi mangiabalene le faranno sparire per sempre dalla faccia della Terra, ma fa impressione il richiamo alla ricerca scientifica.

Il Congresso degli Stati Uniti d'America taglia i fondi al Fermi Lab

Il Paese più ricco e potente del mondo taglia i fondi del più grande centro di ricerca di fisica delle particelle, intitolato a Enrico Fermi. Previsti duecento licenziamenti tra gli scienziati. Faranno la fine dei Ronin?

Non esistono più frontiere a Est

Cade l'ultimo muro che separa Europa occidentale e orientale. Da oggi con l'ingresso nell'area Schengen di Slovenia, Polonia, Slovacchia, Ungheria e Rep. Ceca nonché dei paesi baltici, libera circolazione degli europei (quasi tutti gli europei) tra Est e Ovest.

Non siamo più americani

I Sioux Lakota, vittime di un genocidio silenzioso, denunciano gli accordi disattesi dai governi USA negli ultimi 150 anni. Gli eredi di Toro Seduto e Cavallo Pazzo sostengono che le promesse si siano rivelate "parole senza senso su carta priva di valore". I nativi sono in bilico tra assimilazione forzata e auto/distruzione, con mortalità infantile e tasso di suicidi altissimi tra gli adolescenti. Per non parlare degli attivisti politici in galera, spesso nel bracci della morte.

Moratoria della pena di morte

Grande soddisfazione per la vittoria alle Nazioni Unite: votano a favore 104 Paesi. Contro 54, astenuti 29. La risoluzione non è vincolante, ma è la prima volta nella storia e c'è ottimismo fra gli abolizionisti: è un passo in avanti, la coscienza si costruisce a piccoli passi.

Contro la moratoria della pena di morte

Siria, Iran, Corea del Nord votano contro. L'Asse del Male, come lo definisce l'amministrazione USA. Votano contro anche Cina, Sudan, gli USA. Però anche in questo Paese qualcosa sta cambiando: il New Jersey abolisce la pena di morte, è il primo Stato americano a farlo negli ultimi 30 anni; nel 2003 l'Illinois ha commutato tutte le pene di morte in ergastolo. Gli altri Stati americani stanno cercando di trovare la quadratura del cerchio: una metodica di uccisione che non sia "crudele" (sic).

Le FARC liberano ostaggi per Natale

Pare che il numero complessivo di sequestrati nelle mani della guerriglia colombiana sia di duemila persone. La più celebre è Ingrid Betancourt, donna, ambientalista, pacifista, ostaggio di giochi politici più grandi di lei. Ma forse anche gli altri cittadini colombiani si sentono un po' in ostaggio. "Consiglieri militari" USA rimangono in Colombia da anni per la "guerra alla droga". Gli squadroni della morte militari, rimangono impuniti.

Prorogati gli aiuti ai bambini americani poveri

La notizia è che il presidente non opporrà più il veto contro la proroga della copertura sanitaria per 6 milioni di bambini poveri (Schip, State Children’s Health Insurance Program). Ma il Congresso non è riuscito a convincerlo ad estendere la protezione ai 10 milioni di bambini che ne avrebbero bisogno. E' uno spreco di denaro pubblico. Che però rimane, almeno fino al marzo 2009.


Buon Natale
Buon Anno

I globotomizzati

mercoledì 5 dicembre 2007

Globalizzazione e competitività

La lezione di Dominick Salvatore

di Paolo Razzano

L’austerità della sala Negri da Oleggio della Cattolica, di solito, è scenario per noiose sessioni di laurea, tutte uguali una all’altra.
Ma i libroni impolverati dell’aula di Largo Gemelli possono anche essere spettatori, a volte, di frizzanti lezioni come quella tenuta dall’economista italo-americano Dominick Salvatore.
Un signore non troppo alto e distinto, che a prima vista potrebbe sembrare un simpatico pensionato, mentre in realtà è uno dei massimi esperti al mondo di economia internazionale.

Per parlare di globalizzazione e competitività, il professore della Fordham University di New York ha usato la semplice metafora della pubblicazione del suo manuale. Nessuna definizione confusa o complicato grafico. Semplicemente una storia.
La settima edizione del suo libro era infatti stata pubblicata negli USA con una media di 3 errori per pagina. L’ottava edizione era stata impaginata invece in India, senza errori e a un decimo del costo; poi era stata inviata in Irlanda per essere stampata a un terzo del costo. Con la nona edizione, dopo che le imprese americane avevano imparato a competere sul mercato internazionale, il volume ha potuto tornare ad essere stampato negli States.
Ha usato questo esempio semplice, forse indicativo di quanto negli atenei d’oltreoceano si punti molto di più alla sostanza e poco alla forma.

Dominick Salvatore, che oltre all’insegnamento è stato consulente delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e di numerose multinazionali e banche internazionali, ha parlato per quasi due ore alla platea di studenti, ricercatori e docenti degli effetti della globalizzione, «una vera e propria rivoluzione dovuta a giganteschi cambiamenti nel settore dei gusti, dei trasporti e delle telecomunicazioni, che hanno modificato il mercato del lavoro e la produzione a livello mondiale», ha detto.
L’economista americano ha spiegato come sulla globalizzazione si siano pronunciate molte “cassandre”, che hanno prospettato scenari che poi non si sono verificati. «Coloro che parlavano di aumento dell’inflazione, recessioni o deficit fiscali legati al fenomeno della globalizzazione usavano strumenti di ieri per interpretare il futuro. Ma la globalizzazione è un fenomeno tanto inevitabile quanto nuovo rispetto al passato. I dati e gli indici a nostra disposizione dimostrano come le nazioni più globalizzate siano anche le più competitive. E le più competitive sono quelle che crescono più rapidamente», ha aggiunto il docente, che ha offerto poi una panoramica approfondita dello sviluppo competitivo avvenuto negli ultimi decenni oltreoceano.

Insomma, il docente nato a Villa Santa Maria (Chieti) molti decenni fa e trasferito fin da giovane negli Stati Uniti, non ha lesinato, pur mantenendo un apprezzabile garbo, critiche a colleghi che sono riusciti a vedersi consegnare un Nobel con teorie che poi sono state smentite dai fatti.

E per il futuro? L’attenzione dei ricercatori, nei prossimi anni, sarà concentrata certamente sulla Cina, paese dove si verifica un singolare dualismo, con un governo totalitario e una economia capitalistica. Un paese con tassi di crescita così violenti e una popolazione di oltre 1,2 miliardi di persone ha un ruolo certamente centrale in uno scenario globale che si configura sempre più come confronto tra blocchi geopolitici e geostrategici.
«La Cina si muove ancora come uno stato-nazione, portando avanti un attacco frontale verso gli altri competitors internazionali, piuttosto che accettare un confronto sul piano squisitamente economico. Sarà interessante studiarne le azioni nel prossimo futuro», ha osservato Dominick Salvatore, concludendo la sua appassionata lezione.

Ringraziamo l'amico Paolo Razzano per l'intervento.

martedì 13 novembre 2007

Se potessi avere 1000 euro al mese

Da Repubblica.it: "La maggioranza va sotto (161 a favore, 153 contrari, 3 astenuti) su un emendamento di An che fa salire l'assegno per il dottorato di ricerca con un incremento del fondo relativo di 40 milioni. L'esecutivo aveva dato parere contrario. Dini, Scalera e Fisichella votano con la Cdl". (13 novembre 2007)

http://www.dottorato.it/milleeuro

giovedì 1 novembre 2007

Empowerment e blogosfera

Empowerment. È questo il primo bisogno immateriale di ogni cittadino del mondo; è il desiderio di tirar fuori il meglio di se stessi, di realizzare le proprie capacità. Oggi i consumatori accordano la loro preferenza a quei prodotti, servizi o marchi che sono in grado di favorire l’empowerment – fisicamente, simbolicamente o virtualmente.
È questa la principale tendenza individuata da Carl Rohde, sociologo della cultura e direttore di Signs of the Time (www.signsofthetime.nl), nelle sue ricerche sugli interessi giovanili.
La blogosfera, per più di una ragione, è un concentrato di empowerment.
Innanzitutto perché i blog, permettendo un’interazione diretta, realizzano una comunicazione bidirezionale globale. Nella blogosfera gli utenti percepiscono come autentiche le informazioni fruite, anche perché è attivo un sistema di controllo delle informazioni autogestito dagli stessi utenti, che, se interessati ad un argomento, possono intraprendere discussioni e valutare gli interventi degli altri autori, come accade in Wikipedia. Infine, la blogosfera è percepita come un mondo che appartiene a tutti, e non alle aziende né all’industria dei media.
>> Leggi l’intero articolo di Carl Rohde e Marco Pedroni su Tafter.it.

Empowerment. That is the first immaterial need of everyone around the world; the desire of bringing to the light the best of yourself and realizing your own abilities. Nowadays customers give their preference to products, services and brands that could maximize the empowerment – bodily, symbolically or virtually.
This is the strongest worldwide trend, according to Carl Rohde, Dutch sociologist of culture and head of Signs of the Time (www.signsofthetime.nl), after his researches on youth interests.
The blogosphere is all about empowerment. For more than one reason. The blogosphere allows anyone to respond, directly. It is a worldwide two-way communication unlike any other mass medium has ever provided. Many private operators in the blogosphere have no direct commercial interest. This means that anything that is said is likely to be more authentic, honest and involved than in any television commercial. Participants evaluate each other’s responses with a simple grade, and the most relevant responses that get the best marks will automatically prevail. Wikipedia is a well-know example. A great number of people (seriously) interested in a great number of subjects comment on each other in a systematic way What is more, discussions tend keep going and the knowledge accumulated tends to refine and branch out accordingly and in many languages. Finally, the blogosphere is about empower¬ment because the virtual world is regarded as being “ours” rather than “theirs”, “ours” rather than “corporate”.
>> Carl Rohde and Marco Pedroni’s full article is available on Tafter.it.

lunedì 29 ottobre 2007

On line il sito italiano della Network Analysis

E' on line il sito per la diffusione della Social Network Analysis in Italia:


Il sito è ancora in costruzione (suggerimenti, commenti e critiche sono più che ben accette) ed è pensato per essere una community, cioè un luogo virtuale dove chiunque può aggiungere contenuti.

Al momento il sito contiene:
- le slide del workshop tenuto da Martin Everett a Milano il 26 - 28 settembre 2007
- i link ad alcuni prossimi eventi (il workshop di Salerno, la Sunbelt in Florida)
- il link alla Sezione "Teorie e metodi di analisi delle reti sociali e del capitale sociale", Dipartimento di Scienze Sociali, Pisa.


mercoledì 17 ottobre 2007

'Aridatece' la coscienza di classe

L'università non paga i suoi 70 assistenti.

Università di Camembert (Francia). "Dieci di loro non consegnano per tempo il registro didattico, l'università li punisce ritardando il pagamento. Di tutti i 70 assistenti dell'ateneo. Accade nella piccola università di Camembert, nella Francia centrale, che una decina di giovani para-accademici non restituisca al SAUT (Servizio Assistenti Universitari Temporanei) entro il termine fissato il registro giallo paglierino dove vengono segnate le ore di attività. Una dimenticanza che non permette all'ufficio di pagare le spettanze dei ritardatari. Ma il SAUT non si ferma qui, e decide di ritardare il pagamento (peraltro semestrale) di tutti gli assistenti, anche quelli in regola, come misura punitiva a carattere pedagogico. "Così la prossima volta vi ricordate di rispettare i tempi". Infuriata la maggioranza degli assistenti "in regola", che ripercorrendo ogni pagina dei loro contratti di lavoro (precario) non hanno trovato una singola parola che giustifichi la decisione del SAUT. Ma è questo il nuovo stile dei rapporti di lavoro: pagare non è un dovere, ma un'opzione da gestire come arma di pressione. In barba a contratti, buon senso, dignità del lavoratore. Una misura profondamente umiliante per chi ha svolto con serietà il proprio lavoro e rispettato i termini per gli adempimenti burocratici". Javier Larouffe, L'après-midi Lyon, 15 ottobre.

Non cercate L'après-midi o l'università di Camembert su Google, perché non esistono. Così come il signor Larouffe. Ma la notizia (camuffata per ragioni di opportunità) si riferisce ad un fatto realmente accaduto. Che ci deve allarmare perché indice di un nuovo, preoccupante atteggiamento nei rapporti di lavoro: in barba ai contratti, al buon senso, alla dignità del lavoratore, il pagamento non è più un dovere del datore di lavoro, ma un'opzione utilizzata come strumento di pressione. Nel caso in esame, l'università fa leva sul fatto che i suoi 70 assistenti appartengono a facoltà diverse, si vedono raramente, forse nemmeno si conoscono tutti. Difficilmente organizzeranno una protesta di fronte ad un'azione pur così arbitraria e iniqua, che punisce tutti indiscriminatamente per il comportamento di alcuni. Come le note di classe alle superiori. Eccoci al punto: offrire lavoro parcellizzato e precario, oltre ai ben noti problemi di instabilità del lavoratore, produce categorie di lavoratori incapaci di mobilitarsi per reclamare i più elementari diritti. Effetto collaterale, ma non secondario, del co.co.pro. come modus vivendi. Verrebbe da dire: aridatece la coscienza di classe. Almeno quella.



martedì 9 ottobre 2007

I Bamboccioni di Stato

Il sempre simpatico ministro dell'economia, Tommaso Padoa-Schioppa, forse in un momento di stanchezza, forse deciso a migliorare il suo appeal televisivo, è uscito allo scoperto con una battuta spiritosa. Ha definito coloro che vivono a casa con i genitori oltre i 30 dei "bamboccioni". Sull'esegesi del termine non ci lanciamo, ma diciamo che voleva significare un ampio spettro di termini (bambini, bambocci, coglioni?).

Il fenomeno tutto italiano dei figli a carico oltre tempi ragionevoli è un problema reale e serio. Lo dicono le statistiche e le indagini.
Sulle cause c'è dibattito: dal materialismo storico (la precarietà del lavoro per i giovani) al sociologismo di varia lega (il familismo italico).
Diciamo che il ministro propende per la prima ipotesi: infatti la battuta era contestuale alla presentazione di un provvedimento per aiutare i giovani a pagare l'affitto. Un provvedimento interessante, diciamo.
Ma l'aspetto che più irrita di questa vicenda credo sia un altro: il comportamento dei giovani non è altro che l'effetto di condizioni comuni a una intera generazione. La classe dirigente di questo paese però stenta a prenderne atto e a tirarne le conseguenze.
La scarsa mobilità sociale del nostro paese è un fatto. Il ritardo nell'assolvere i compiti di crescita da parte dei giovani è anch'esso un fatto innegabile (un utile lettura può essere: Giovani del nuovo secolo: quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia / a cura di C. Buzzi, A. Cavalli e A. de Lillo - Bologna - 2002).
Ma è un fatto anche che in questo paese nelle ultime elezioni due settantenni si sono affrontati come capi dei principali schieramenti. Persone che arriveranno da ultrasettantenni alla fine della legislatura.
Un paese che ci divertiamo a definire gerontocratico. E in effetti lo è. Ma l'anagrafe non è né un merito, né una colpa (come osserva l'ottantenne Enzo Biagi).

Quello che trovo insopportabile è l'incapacità della classe dirigente di capire la situazione, di mettersi nei panni degli altri, di ammettere errori e omissioni.

Il capo dei petrolieri italiani, a fronte di critiche precise (il prezzo del petrolio scende, ma non quello della benzina), rispondeva incolpando la "pigrizia" dei consumatori italiani (Basta non andare sotto casa a fare benzina!).

Non si può credere che fenomeni così complessi, si spieghino con variabili del tutto individuali (come le spiegazioni basate su "concetti psicologici" quali la "pigrizia", sempre lei); o su presunti caratteri nazionali ("gli italiani sono tutti mammoni"); oppure solo su variabili economiche ("Ti do questi mille euro, così te ne vai fuori casa").

Innanzitutto appare incredibile che si possa pensare che mille euro siano un incentivo sufficiente a superare problemi enormi come la precarietà del posto di lavoro. La precarietà è il più grande nemico dei progetti a lungo termine. Non si possono fare, a meno di non essere incoscienti (e credo che per ora sia l'unica soluzione percorribile: lasciarsi andare, prendere rischi, sperare in bene, sperare nel condono, nell'indulto...).

In secondo luogo non ho sentito nessuno della attuale classe dirigente (i simpatici settantenni di cui sopra), fare due conti: come si fa a uscire di casa, diciamo almeno a 25 anni?
Bisogna aver ottenuto un titolo di studio utile per trovare subito un lavoro; oppure avere trovato un lavoro a tempo indeterminato che garantisca di poter pagare un mutuo (diciamo 2.000 euro al mese?); oppure... Oppure possiamo fare che "la casa me la comprano i miei, così faccio l'indipendente".
Una seria riflessione dovrebbe partire da questa simulazione: a quali condizioni una persona (maschio o femmina? italiano o di origine straniera? è indifferente?) possa permettersi di abbandonare il nido e prendere il volo. Ne verrebbe fuori un quadro completamente diverso in cui le variabili economiche non spiegano tutto, ma spiegano molto, in cui sarebbe la nostra società nel suo insieme sotto esame, non gli individui.

Un altro esempio per capirci? Un altro dei think thank italiani è Confindustria. Anche gli imprenditori avrebbero ragione di lamentarsi dell'ingresso ritardato nel mondo del lavoro (energie nuove, nuove idee...). Eppure non li abbiamo mai sentiti denunciare una delle norme più significative del nostro mercato del lavoro: il CFL (Contratto di Formazione e Lavoro). Questo contratto si applica ai "giovani" dai 16 anni ai 32 anni. In alcune regioni (le più disagiate) il limite dei 32 anni può essere prolungato (in Lazio è 35 anni per esempio).
Quindi in Italia esiste un contratto studiato per i giovani (e molto utilizzato), inventato negli anni Ottanta, in base al quale a 32-35 anni sei ancora... un giovane. A quell'età dovresti essere fuori casa da dieci anni!

Quando in questi giorni si critica "la casta", credo che si voglia criticare proprio questa distanza abissale della classe politica (ma anche della classe dirigente nel suo insieme) dalla realtà.
Chi è che sta chiuso nella sua torre d'avorio?

venerdì 7 settembre 2007

Il musulmano immaginato e la moschea di Magenta

Il musulmano immaginato: il caso del conflitto per la moschea di Magenta attraverso la sua rappresentazione mediatica
di Michele Marzulli e Marco Pedroni
Urbino, 14 settembre 2007
Congresso Nazionale AIS - Sezione di Sociologia della religione



Obiettivo del paper è analizzare, attraverso uno studio di caso, i problemi posti dall’insediamento di una comunità di nazionalità prevalentemente pakistana e religione musulmana in un piccolo-medio centro italiano.
Il caso analizzato è quello della cosiddetta moschea di Magenta, cittadina dell’Ovest Milano e del conflitto nato attorno alla sua presenza nell’autunno del 2006.
Il conflitto vede protagonista la comunità pakistana di Magenta e l’amministrazione comunale in seguito all’apertura di un centro culturale islamico in città.
Nel paper viene ricostruito il campo delle forze in conflitto (comunità pakistana, residenti del quartiere, mezzi di informazione locale, opinione pubblica locale, amministrazione comunale, comitato di sostegno alla comunità pakistana); viene individuata la complessità della posta in gioco (che non è solo la possibilità di riunirsi in preghiera, ma la possibilità stessa di un’affermazione identitaria attraverso la creazione di uno spazio fisico e simbolico di riunione); viene analizzata la rappresentazione del conflitto nei media locali, nei quali traspaiono i motivi di preoccupazione dei magentini per la presenza pakistana e la «magia sociale», di cui parla Bourdieu, che deforma i termini reali del conflitto (di natura amministrativo col Comune; di natura culturale con la popolazione locale).

L’interesse della vicenda risiede nella costruzione simbolica di uno scontro in cui la moschea, luogo di «visibilizzazione» dell’islam nel territorio e luogo di produzione simbolica di importanti elementi della cultura originaria dell’individuo e pertanto segno esteriore di una presenza che non si vuole più temporanea, moltiplica nella rappresentazione collettiva i pakistani di Magenta in una moltitudine agguerrita e pericolosa.

Violenza simbolica

La teoria della violenza simbolica in P. Bourdieu
di Marco Pedroni
Urbino, 13 settembre 2007 - Forum AIS Giovani

Il pensiero di Pierre Bourdieu è solitamente associato alle nozioni di habitus, capitale e campo. Meno nota, invece, è la sua teoria della violenza simbolica, espressione con cui Bourdieu indica una forma di violenza invisibile attraverso la quale alcuni significati vengono imposti come legittimi, dissimulando i rapporti di forza di cui in realtà sono espressione.
La teoria della violenza simbolica prende corpo con gli studi di Bourdieu sulla società cabila (Sociologie de l’Algérie, Le Déracinement) e sul sistema scolastico (La Reproduction, Les Héritiers) e attraversa i suoi scritti principali (Esquisse d’une théorie de la pratique, Raisons pratiques, Méditations pascaliennes) fino a La domination masculine, dove riceve un’ampia trattazione in relazione al rapporto di dominazione dell’uomo sulla donna.
Il termine «simbolico» è fortemente presente nel vocabolario della sociologia francese classica, in particolare nei lavori di Mauss (Essai sur le don), che nell’analizzare la reciprocità del dono mostra gli effetti sociali della funzione simbolica, e di Durkheim (Les formes élémentaires de la vie religieuse), che interpreta le credenze e i riti totemici in modo non letterale, ma simbolico. I fenomeni simbolici sono oggettivi, tanto da costituire la base per la creazione di una comunità.
La violenza simbolica, che si esercita con il consenso di chi la subisce, presuppone una visione già propria di Marx e Weber: i rapporti di senso si fondano su rapporti di forza, che si definiscono nella competizione tra attori sociali e gruppi in lotta per le posizioni dominanti. Ma Bourdieu supera la riduzione marxista della cultura a sovrastruttura proprio attraverso Weber, da cui mutua un’idea di simbolico come forma di valore non riducibile al solo valore economico, ma legata all’attività cognitiva (l’attribuzione di senso).

Nella letteratura sociologica la nozione è stata spesso impiegata come semplice contrario di una violenza fisica o di una violenza reale. Le critiche mosse a Bourdieu riguardano in particolar modo: la natura eminentemente concettuale della violenza simbolica, che ne rende difficoltosa una precisa delimitazione; la sua dipendenza dalle categorie del pensiero economico; il privilegio epistemologico che Bourdieu accorda al sociologo, il cui lavoro critico deve mostrare agli agenti sociali la via per liberarsi dalla morsa del dominio simbolico.

Il minor successo del concetto nel panorama italiano può essere ricondotto al fatto che la violenza simbolica richiama, più di altri temi, il problema del rapporto tra dominati e dominanti, acutizzando le frequenti accuse di marxismo e strutturalismo rivolte a Bourdieu. La tesi che si intende sostenere è che, in realtà, il dualismo tra dominati e dominanti è letto dall’autore in stretta relazione con la dimensione simbolica: Bourdieu si sottrae tanto alla concezione neokantiana dei sistemi simbolici come strumenti di conoscenza e costruzione del mondo oggettivo (strutture strutturanti), quanto all’analisi strutturale che li tratta come mezzi di comunicazione (strutture strutturate), ma anche al marxismo che in essi vede strumenti di dominio funzionali agli interessi della classe dominante. Le tre tradizioni sembrano anzi trovare un punto d’incontro nella dimensione del potere simbolico (Language et pouvoir symbolique).
Più convincente è invece la critica che vede nella violenza simbolica una teoria delimitata senza sufficiente precisione e difficile da operativizzare empiricamente. Per la sociologia essa rimane una teoria dal forte potere euristico, capace di offrire un modello di spiegazione adatto a tutti i campi dell’attività umana, nei quali si vengono sempre a determinare regole specifiche di azione, una posta in gioco e competizioni per il controllo del campo. La sfida, assolutamente aperta, consiste nell’individuare delle linee guida per applicare la teoria della violenza simbolica a oggetti di analisi più specifici.

martedì 26 giugno 2007

Cittadinanza e immigrazione

Vivace ed interessante dibattito all'Università Cattolica di Milano, giovedì 14 giugno 2007, in occasione dell’uscita di Cittadinanze. Appartenenza e diritti nella società dell’immigrazione, di Laura Zanfrini (Laterza).
L’immigrazione provoca una rivisitazione del concetto di cittadinanza. Vincenzo Cesareo (Segretario Generale Fondazione Ismu) ha ricordato come oggi venga enfatizzato il discorso sui diritti, ma meno quello sui doveri, col conseguente rischio di svuotare l’idea di cittadinanza, che implica gli uni e gli altri.
L'immigrazione rappresenta, ci ricorda Bruno Montanari (ordinario di Filosofia del diritto, Univ. di Catania), un fenomeno di forte transnazionalità, come lo fu nell'800 la classe operaia.
Spesso sul tema dell’immigrazione si finisce per sentire solo le campane più estreme, quelle che nascono dalle polemiche; il libro di Zanfrini, secondo Andrea Bixio (ordinario di Sociologia, La Sapienza) è invece equilibrato. La cittadinanza pone diversi ordini di problemi:
1. ambivalenza: è nello stesso tempo un processo di inclusione ed esclusione;
2. rapporto tra cittadinanza e straniero
3. rapporto tra cittadinanza e persona: la cittadinanza fondamentale non è più quella politica, ma quella che si fonda sulla persona
4. dialettica tra diritti politici e diritti sociali
5. rapporto tra cittadinanza politica e cittadinanza religiosa: è questo ciò che oggi crea problemi (le pratiche connesse alla religione); i musulmani non chiedono la laicità settecentesca, ma il riconoscimento positivo dell’esercizio del loro culto
6. rapporto tra cittadinanza e sudditanza: oggi è diventata centrale la cittadinanza economica globale, di cui la cittadinanza politica è un sottoprodotto

Marco Demarie (direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino) vede nel lavoro di Zanfrini un testo utile per chi studia l’immigrazione dal punto di vista empirico. L'empiricità è tratto fondamentale degli studi su questo tema, purché il caso locale non venga elevato a paradigma generale. In Zanfrini manca però la riflessione sulla domanda di cittadinanza: l’autrice si concentra solo sul lato dell'offerta, secondo Demarie. Inoltre, il colpevole di tutto pare essere lo Stato-nazione: serve invece una visione meno identitaria e più funzionale della cittadinanza. Per gli immigrati, infatti, la cittadinanza non è un valore, ma uno strumento per fruire di diritti, utile a fini pratici.

martedì 22 maggio 2007

Non standard?

Le interviste in profondità, notano Diana e Montesperelli (1), incontrano un crescente successo per tre ordini di ragioni. Cominciamo con le prime due: mirano, weberianamente, alla comprensione degli individui; consentono un'interazione empatica con l'intervistato.
La terza porta con sé un rischio: si ricorre alle tecniche non standard perché più rapide e aperte alla fantasia del ricercatore, e perché permettono di eliminare questionari, campionamento probabilistico, analisi statistiche.
Se si facesse un'inchiesta tra i dottorandi e i giovani ricercatori, forse si scoprirebbe un largo impiego delle tecniche non standard, e in particolare dell'intervista in profondità. La ricerca 'solitaria' non permette, d'altronde, consistenti piani di campionamento e raccolta dati. Ma il non standard non deve diventare una scelta negativa, una rinuncia di fronte all'impossibilità di titaniche imprese quantitative. Per non alimentare le ragioni di chi nel non standard vede un impressionismo sociologico, è fondamentale pensarlo come uno strumento nella 'cassetta degli attrezzi' del ricercatore. A volte infinitamente più utile di una survey. Altre volte no. E, soprattutto, imparare a utilizzare le tecniche non standard in tutta la loro complessità e ricchezza. Le occasioni di formazione non mancano; segnaliamo, a fine maggio, le Giornate non standard di Brescia e, nell'ambito della Scuola estiva sul metodo e la ricerca sociale (Terravecchia, fine agosto-inizio settembre), l'intervento di Montesperelli "Come trarre da un’intervista ermeneutica dati per una matrice".

(1) Paolo Diana, Paolo Montesperelli, Analizzare le interviste ermeneutiche, Roma, Carocci, 2005.

martedì 1 maggio 2007

Anti-americanismi salutari

Negli Stati Uniti d'America, il paese più ricco del mondo, la sanità non funziona. Abbiamo un sistema di ricerca, ospedali, professionisti, tutti di livello eccellente; ma il sistema può essere al massimo definito mediocre. E il problema risiede nel fatto che dal punto vista organizzativo è più al servizio del profitto che dei pazienti.

E' stato più o meno questo l'attacco del prof. David Mechanic, sociologo americano della Rutgers State University of New Jersey. L'occasione era l'apertura del convegno "Scienze Sociali e salute nel XXI secolo: nuove tendenze, vecchi dilemmi?" (Forlì dal 19 - 21 aprile), in occasione del V anniversario della rivista "Salute e società", uno dei luoghi privilegiati della riflessione sociologica sui temi della salute.
Spiazzante l'attacco di Mechanic, ma francamente non nuovo, non originale. Il paradosso della salute in USA (uno dei tanti paradossi, verrebbe da dire) è riconosciuto in ambito accademico, meno sul piano culturale e politico. Ricordare che oltretutto la spesa sanitaria è il doppio di quella italiana (16% del PIL contro l'8%), verrebbe di certo inteso come un maligno artificio anti-americano.

Eppure la crudeltà dei numeri è questa. In Italia si spende meno e si cura di più: quanto meno si curano tutti, quasi tutti, i cittadini.
Perché l'altro elemento che fa scandalo è l'enorme fascia di popolazione esclusa dalle cure sanitarie. 46 milioni di persone, il 18% della popolazione, non possiede un'assicurazione (magari perché l'azienda in cui lavora è di ridotte dimensioni oppure vive un momento di difficoltà economiche). Che cosa resta a questi milioni di americani? Le cure essenziali comunque garantite... eppure, eppure la ricerca ci dice non solo che la qualità delle cure ricevute è bassa, ma che ricevono solo i 2/3 delle cure dovute (lo ricordava sempre Mechanic).
Le cause, secondo Mechanic sono da ricercare nell'etica capitalistica (né più né meno): nel fatto che essa influenzi anche il mercato della salute. Cioè l'attuale situazione è dovuta al fatto che sono stati gli economisti a riformare il sistema sanitario. E il mercato sanitario è un mercato sui generis, in cui non vale il principio del consumatore razionale, se mai vale in qualche contesto (ma questo lo aggiungo io).
Non si può poi dimenticare il ruolo dell'industria farmaceutica, i margini di profitto della quale superano di gran lunga qualsiasi altra azienda in USA. Le multinazionali del farmaco spendono una quota molto superiore in marketing piuttosto che in ricerca. Spendono tantissimo in pubblicità e per i propri rappresentanti (gli informatori medico-scientifici).
Dal punto di vista del sociologo quindi sorgono legittimi dubbi sulla natura delle ricerche che esse finanziano o sugli studi che fanno pubblicare. Per es. non vengono mai eseguiti studi post-market (dopo la diffusione di un farmaco): per questo i danni alla salute si conoscono solo nel tempo, quando le persone hanno assunto per lunghi periodi di tempo un farmaco.
A questo proposito bisognerebbe ricordare il mai abbastanza citato Robert K. Merton, che legava i concetti di democrazia e libertà della ricerca.
Le conseguenze sociali in senso più largo? Il crollo della fiducia nella classe medica (dal 1966 al 2002 dal 73% al 33%), come i politici, i magistrati, l'esercito, le università.
L'esito paradossale? Oggi molti sono insoddisfatti del sistema sanitario, vorrebbero cambiarlo, ma sono come paralizzati: continua infatti l'enorme pressione delle lobby che desiderano che tutto rimanga così. E di fronte all'ignoto, dopo il fallimento del tentativo di riforma Clinton (aggiungo io), si preferisce lasciare tutto com'è, per timore che le cose peggiorino ancora.

Una riflessione finale: Massachusetts e California stanno cercando di fare riforme per avere sistemi sanitari universalistici. Vedremo: già il governatore Schwarzenegger ci ha stupito facendo una cosa molto anti-americana: in contrasto con il presidente George W. Bush, ha applicato il Protocollo di Kyoto allo Stato più ricco della Confederazione.
Oggi la situazione della salute conferma però una delle tendenze più rilevanti della moderna globalizzazione: quella della polarizzazione, tra gli Stati e dentro gli Stati (come ci ricorda Saskia Sassen).

martedì 24 aprile 2007

B come Bové. E come Bourdieu


Elezioni presidenziali francesi. Nella sfida Royal-Sarkozy, resa più avvincente dal terzo incomodo Bayrou e dall'inossidabile Le Pen, un piccolo esercito di candidati minori si contende una quota non marginale di voti. Così, al primo turno, tra lo 0.3% di Schivardi e il 4.1 di Besancenot, spiccano i baffoni di José Bové, candidato del sindacato Confederazione Contadina.

Bové, Bové... dove ho già sentito questo nome? Me lo ricorda l'antropologa Deborah Reed-Danahay in Relocating Bourdieu (Indiana Univ. Press, 2005): "Bourdieu supported the controversial pesant-hero José Bové, who led French farmers to attack a McDonald's Restaurant" (p. 163-4). Già, un assalto con tanto di trattore, nel 1999.

Ecco dunque che al documentario "La sociologie est un sport de combat" si aggiunge un'altra occasione per conoscere Bourdieu tramite video : Bourdieu parla di Bové. Se Bourdieu definisce il fenomeno Bové come "un miracolo", Bové replica descrivendo il sociologo come un uomo che "à travers sa réflexion, ses ouvrages, il a mis en lumière la réalité de la société, et comme c’était un homme engagé, cette réalité lui était insupportable ", ce qui l’a " amené à prendre position et à être dans le débat. En ce sens, c’est une figure très importante du XXe siècle " (puoi approfondire qui).

giovedì 19 aprile 2007

Cacciatori di tendenze

Il ruolo dei coolhunter nel circuito produzione-consumo*

Il termine coolhunting nasce negli anni ’90 per identificare l’attività di ricerca di tendenze all’interno dei mondi del consumo giovanile. La «caccia di tendenze» viene nobilitata come attività professionale da un articolo di Gladwell su The New Yorker, mentre è con No Logo di Naomi Klein che il coolhunting diventa una tema familiare ad un più vasto pubblico.
Il coolhunter svolge un lavoro di ricerca (anzi, letteralmente di «caccia») di ciò che è considerato cool nelle subculture giovanili, attraverso l’osservazione dei trend che si sviluppano nella fascia d’età compresa tra i 12 e 24 anni. Le aree di osservazione spaziano dall’abbigliamento alla musica ai prodotti tecnologici, coinvolgendo tutte le manifestazioni della pop culture, in particolar modo quelle legate agli stili di strada. Una visione romantica e stereotipata vuole che il coolhunter sia un giovane, necessariamente cool, che percorre con taccuino e fotocamera digitale le città e i luoghi frequentati dalle subculture, traendone una sorta di materiale etnografico sulla base del quale pubblicitari e responsabili di marketing possano ridisegnare l’offerta e la comunicazione dei propri prodotti.
Il coolhunting è in realtà un fenomeno tutt’altro che trascurabile, e si presta a differenti chiavi di lettura. Se, nella prospettiva delle strategie aziendali, esso rappresenta la nuova frontiera di un marketing che cerca di anticipare il consumatore piuttosto che seguirlo, da un punto di vista culturale è uno dei sintomi più evidenti della commercializzazione della cultura giovanile.
La sostituzione dell’età alla classe come variabile che dà prestigio all’innovatore di moda ha rovesciato il classico modello trickle-down di diffusione della moda nel suo opposto, ovvero un modello trickle-up in cui è la strada a dettare gli stili. Ecco allora che il coolhunter, incaricato di scovare le tendenze che si annidano lontano dalle passerelle, si trova a svolgere un ruolo cruciale nel circuito produzione-consumo. Il suo lavoro di scoperta delle tendenze alla fonte permette alle aziende di influenzare il loro movimento, e contemporaneamente determina un’accelerazione senza precedenti di tempi di ideazione e produzione, nonché dei cicli della moda.
Il coolhunting costituisce un interessante modello della diffusione di innovazioni, cui è possibile applicare il paradigma in 5 stadi formulato nell’ambito degli studi rurali di Ryan e Gross: lo stile cool è adottato da pochi «innovatori», i quali contagiano un ristretto gruppo di «adottatori precoci»; da qui la tendenza si diffonde prima ad una «maggioranza precoce» e poi ad una «maggioranza tardiva» di consumatori, finché si rompono anche le resistenze dei «tradizionali». Le aziende di moda possono intervenire nel ciclo della tendenza accelerando i passaggi e la velocità del contagio, delegando ai coolhunter il compito di osservare l’evolversi degli stili degli «innovatori».Infine, il mestiere del coolhunter può essere interpretato alla luce della teoria della violenza simbolica, espressione utilizzata da Bourdieu per indicare una forma di violenza dolce, quasi invisibile, che si esercita attraverso le forme puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza. Se anche è vero che il cool non può essere prodotto, ma solo osservato (come sostiene Gladwell), è ancor più vero che l’intervento della macchina del marketing si appropria dello stile emergente, «bruciandone» l’autenticità in brevissimo tempo. Mediante la violenza simbolica alcuni significati si impongono come legittimi, dissimulando le relazioni di forza di cui in realtà sono espressione. Il mito della moda nata dalla strada nasconde così un duplice rapporto non paritario: da una parte quello tra produttori (che si appropriano delle tendenze attraverso i coolhunter) e subculture espropriate del proprio stile; dall’altra quello tra produttori e consumatori (che offrono la propria spontanea adesione all’immagine di coolness creata e venduta dalle aziende).
* Il paper è stato presentato al Convegno Internazionale "Moda e stratificazione sociale" (Milano, Università Cattolica, 11 maggio 2007) nella sessione cool.

martedì 3 aprile 2007

Etnografia del consenso (dis)informato

La natura del rapporto tra medico e paziente continua a conservare una dimensione magica fondata sull’inevitabile disparità di conoscenza tra i due soggetti. Da una parte abbiamo il dottore-guaritore, depositario di un sapere medico che gli permette di prendere decisioni sul «rimedio» più indicato; dall’altra, il paziente, in buona misura privo di strumenti per capire se la «magia» che gli sta per essere applicata è quella giusta o meno. In una qualsiasi operazione, anche ambulatoriale, ad unire questi due poli della relazione magica compare il cosiddetto consenso informato, un foglio che il paziente firma per dichiarare la sua completa conoscenza della natura dell’intervento cui sta per essere sottoposto, con i relativi rischi.
Ma questo consenso è davvero informato? Credo sarebbe interessante trasformare questa domanda in un piano di ricerca più articolato che vada a verificare quanto i pazienti sanno rispetto all’operazione che li aspetta, da dove hanno appreso le informazioni, in che modo hanno discusso col medico dei rischi legati all’intervento. Curiosità che ho maturato nel corso di una (involontaria) osservazione dissimulata in un gruppo di persone sottoposte ad un intervento di «cheratectomia laser ad eccimeri», ovvero l’ormai routinaria operazione di correzione della miopia attraverso il laser.

Il giorno dell’intervento, gli operandi vengono convocati tutti alla stessa ora in un ospedale pubblico specializzato in questo tipo di operazione oculistica. L’ordine d’arrivo determina l’ordine degli interventi. Tra l’ora di convocazione e l’arrivo dello specialista passano due ore, uno spazio di «attesa magica» del guaritore. Tempo parzialmente speso con una giovane dottoressa-apprendista in visite preliminari, «riti di preparazione» con l’obiettivo di valutare la stabilità della miopia rispetto all’ultima visita ed eventuali fattori di rischio che possano sconsigliare l’esecuzione del trattamento laser. Ma nelle due ore si consuma anche il «rito del consenso informato». Un’infermiera distribuisce fotocopie sbiadite al limite dell’illeggibilità; gli 8 operandi devono compilarlo e firmarlo in duplice copia, una per il medico e una per il paziente. Ne nasce una situazione curiosa: solo un paio di operandi sembrano dedicare qualche minuto alla lettura del foglio, e addirittura una di essi (donna, sulla cinquantina) rimbrotta un ragazzo (sulla ventina) che esita a firmare e si prolunga nella lettura. «Guarda che tanto lo devi firmare comunque, se no il dottore non ti opera».
Ma cosa stanno firmando questi operandi? Estrapolo dal documento: «Io sottoscritto… in pieno possesso delle mie facoltà mentali, acconsento a sottopormi all’intervento di chirurgia rifrattiva mediante laser ad eccimeri, dopo essere stato edotto delle caratteristiche dell’intervento ed aver attentamente valutato, in conformità a quanto ampiamente illustrato e riassunto in uno specifico memorandum da me sottoscritto per presa visione (ed allegato al presente consenso informato), i possibili vantaggi così come gli eventuali rischi generici e specifici dell’intervento stesso». Segue dichiarazione di essere a conoscenza di un elenco di possibili rischi. E si continua: «Dichiaro che mi è stata data la possibilità di porre domande riguardo alle problematiche relative a quest’intervento, ricevendo dal medico risposte precise, chiare ed esaurienti». Eccetera eccetera.
Tento una verifica conversando con il giovane operando. Al consenso informato non è allegato nessun memorandum, che quindi non può essere visionato e tanto meno sottoscritto. Quali rischi conosce? Nessuno, in realtà: il medico gli ha detto che ormai è un’operazione di routine. Tutt’al più, un po’ di fastidio nei giorni seguenti. Ma il ragazzo non ha chiesto qualcosa di più? Sì, ha chiesto vantaggi e rischi dell’operazione; il medico gli ha mostrato il modellino in plastica di un occhio, ha spiegato che il laser brucia quello strato di tessuto oculare che impedisce la corretta messa a fuoco; non si è sentito di chiedere di più, aveva l’impressione di essere un malfidente che non crede nell’abilità (il «potere magico») dello specialista. Ma allora come ha deciso di affrontare un’operazione che molti sconsigliano? Racconti di amici che l’hanno fatta e si sono trovati bene; racconti di persone conosciute nella sala d’aspetto dello studio oculistico dove l’operando è stato visitato un paio di volte; racconti che proseguono davanti all’ambulatorio, mentre il medico si fa attendere. Qualcuno si opera per la seconda volta: una «correzione». L’operando non sapeva dell’eventualità che l’intervento non corregga completamente la miopia. Qualcuno dice che dopo l’operazione, in ogni caso, non si possono portare più le lenti a contatto. Sarà vero? Il ragazzo non lo sa.
Non vado oltre, l’elenco sarebbe lungo. L’impressione è che la maggior parte delle informazioni venga raccolta in modo informale da altri operati o operandi con cui ci si trova a condividere gli spazi di una sala d’attesa o di un ambulatorio. Ma il bello deve ancora venire: quando l’oculista arriva, un’operanda (donna, sui 40 anni) viene privatamente convocata nella sala dove si svolgerà l’intervento. La porta chiusa non basta a mantenere la privacy sulla discussione, che poi prosegue all’esterno della sala. La donna ha uno spessore della cornea che non la mette sufficientemente al riparo dai rischi dell’operazione. «Si può operare o meno, con qualche lieve rischio. Veda lei, signora». (Il verbo vedere, in questo contesto, è quanto mai ironico). La donna, il cui livello di informazione sarà verosimilmente uguale a quello degli altri operandi, viene messa nella condizione di dover decidere su una questione di cui non sa molto. Accetterà di sottoporsi alla magia?

giovedì 22 marzo 2007

"Ciao, come stai?" Metafisica della salute

Non bisogna essere Goffman per sapere quanto sia difficile rispondere, non banalmente, alla semplice domanda con cui siamo soliti salutarci (salutare: verbo o aggettivo?). E non solo in Italia (How are you? Wie geht's? ça va? Ma ci sono almeno 425 modi per "salutarsi").
Non bisogna essere Almodovar per sapere che si tratta di una domanda metafisica*, al fondo. (*rispondeva così a chi gli faceva una domanda sull'amore eterno).
Eppure all'Istat hanno proprio questo problema. E ce l'hanno tutti coloro che vogliano interessarsi delle condizioni di salute della popolazione di un paese.
Demografi, statistici e, da buoni ultimi, i sociologi si interrogano da tempo su come si possa stabilire se una popolazione sia sana o malata (dal nostro punto di vista, si tratta di un continuum: non è che la salute inizia dove finisce la malattia e viceversa... troppo semplice, così).
Uno dei modi più semplici è... chiederlo. Ed è proprio ciò che fa periodicamente l'Istat. Ma fa anche altro, cerca di valutare ("oggettivamente", attraverso indici) anche lo stato reale di salute.
Nell'ultima pubblicazione uscita in tal senso, si leggono cose molto interessanti.
Dai cluster regionali (qui un PDF sintetico) della salute si scopre innanzitutto che in Italia ci sono enormi differenze (al Sud si sta peggio: non è una novità, ma continua a essere una sconfitta del sistema).
Ma è sulla percezione della salute che troviamo le più diverse interpretazioni. Esiste una grande differenza tra "salute percepita" e "salute fisica" (indice ottenuto da 12 domande sulle funzioni fisiche). Al Nord si sta meglio di quanto non si creda e al Sud si sta molto peggio di quanto non se ne sia consapevoli.
Ora, non è facile trarre conclusioni, ma alcune ipotesi di studio possono essere accennate (sulle questioni metodologiche, per ora sorvoliamo).
Se stiamo meglio di quanto crediamo, allora forse le campagne salutistiche o le preoccupazioni di varia natura influiscono in maniera decisiva sulle rappresentazioni sociali.
Se stiamo peggio di quanto non dicano le misurazioni, allora forse esiste un margine, una riserva nascosta che ci fa sentire comunque bene (nonostante tutto). Troppo semplice pensare che la misurazione sia sbagliata.
Allora è vero quello che dicono al Sud ("Qui si sta bene, abbiamo tutto... manca solo il lavoro")?
Non possiamo dirlo, se non cadendo in vieti stereotipi. Ma se Milano (città più ricca d'Italia) in cinque anni crolla nelle classifiche sulla sicurezza (dal 46' al 102' posto, come ci ricorda il sociologo Ilvo Diamanti), allora forse i milanesi alla domanda fatidica non potranno rispondere "tutto bene, grazie", senza sentirsi un po' ridicoli.

lunedì 19 marzo 2007

Incipit

Globotomia nasce come spazio di riflessione critica di un gruppo di dottorandi in Sociologia. Una sorta di diario per registrare l'odissea dell'homo sociologicus, quello (per parodiare un famoso slogan pubblicitario) "che deve chiedere sempre". Chiedere cosa sta accadendo intorno a lui, svelare il trucco.
Il nome vagamente sinistro trae origine dalla sensazione di deprivazione cerebrale (quasi una lobotomia) che ci è causata dalla globalizzazione. In un duplice senso: la globalizzazione come sintesi di tutte le dinamiche sociali che (si vuol credere) sono ingovernabili, e la globalizzazione in quanto categoria che, come tutte le categorie, è necessaria e al tempo stesso opprimente, perché nel raccontare un mondo contribuisce a costruirlo.
Globotomia è un diario spontaneo, aperto ad amici e colleghi, sociologi e non, per "rompere il vetro". Il vetro che separa gli ambiti disciplinari, i gruppi di ricerca, le metodologie. Un vetro attraverso il quale tutti si guardano e tutti si ignorano.
Globotomia è un tentativo di costruire conoscenza attraverso la condivisione, una dimensione di discorso pre-scientifico dove scrivere per farsi capire, piuttosto che per evitare cattive recensioni; liberi dall'ansia delle citazioni e delle giustificazioni, senza avere sul collo il fiato dei referee.
E' il taccuino di chi va a vedere cosa succede in strada, sporcandosi il fondo dei pantaloni.