domenica 2 novembre 2008

Ancora sulle "classi ponte" per bambini immigrati

Perché l'idea delle "classi ponte" per bambini immigrati non è una buona idea?
Non è facile dirlo, occorre quantomeno disporre di qualche informazione.
In teoria l'idea è sacrosanta: la lingua italiana è un ostacolo iniziale per i giovani stranieri; ancora oggi, non esistono soluzioni univoche.

Eppure.
Eppure, alcune cose bisogna saperle.
1) la scuola italiana si è posta il problema da molti anni. E ha trovato molte soluzioni. Si tratta forse di soluzioni locali, ma hanno avuto spesso ottimi risultati.
La loro caratteristica è stata quella di non dividere mai l'unità della classe, usando quindi il "gruppo classe" come strumento educativo e formativo.
E' difficile dire quanti siano gli esperimenti, ma in base alla nostra esperienza possiamo dire che almeno in Lombardia esistono negli ultimi tempi migliaia di progetti di integrazione interculturale (migliaia). Una parte rilevante è stata censita e analizzata dall'ISMU.

2) queste soluzioni sono state sufficienti? Non sempre. Anche perché spesso il problema è quello del finanziamento di questi progetti (in genere innovativi): in alcuni casi infatti bisogna aspettare i fondi degli enti locali e può accadere che problemi di natura organizzativa facciano partire i corsi solo nel mese di marzo. Come a Milano, la capitale italiana degli stranieri.

3) a livello più generale: ci sembra di poter dire che classi con ragazzi di ogni origine (etnica o sociale), ma anche con giovani portatori di handicap (sempre che gli altri siano definibili semplicemente "normodotati"), siano luoghi che prefigurano una società più ricca, non solo più problematica. Avere cura della persona, significa rispettare ogni persona.

4) vogliamo davvero fare una barriera d'ingresso alle classi "normali"? Siamo davvero sicuri? Facciamo un'ipotesi: esame di lingua italiana per tutti gli alunni. Siamo sicuri che siano gli stranieri, solo gli stranieri a rimanere fuori? Non potrebbe capitare che rimangano fuori anche coloro che in casa parlano un dialetto come prima lingua?

5) c'è poi un problema che riguarda il presupposto di questa iniziativa. Siamo sicuri che gli stranieri siano solo un fastidio nelle classi italiane? Che siano loro a rallentare l'apprendimento degli altri? Le ricerche dicono cose un po' diverse. Ma anche l'esperienza di molti insegnanti che, per fare un esempio, preferiscono, in alcuni momenti, avere in classe studenti stranieri che italiani (perché più rispettosi dell'autorità). Ma soprattutto chi è che si annoia di più in classe per il livello dei compagni? Si è mai provato a riflettere su quanto deve essere penoso per un cinese o per un est-europeo (bulgaro per esempio) stare in classe con compagni che non sono in grado di capire nulla di matematica o scienze?
Il caso (postato qui sotto) del rumeno arrivato primo ai test di ingresso al Politecnico di Milano è solo uno dei tanti.

Forse qualche informazione in più sarebbe utile.

venerdì 31 ottobre 2008

"Classi ponte" (per i bambini stranieri)

La notizia: "Scuola,ok alle classi per stranieri".

Opinioni ("Le classi per immigrati aiutano l’integrazione").
Opinioni altre ("Classi ponte, cresce l'indignazione").

Altra notizia ("Un detenuto romeno primo al test da ingegnere all’Università")...

lunedì 6 ottobre 2008

Sacro e profano

Prima avevamo dei dubbi sulla serietà della crisi. Ma ora si sono messi a chiamare in causa Dio e il Papa. In genere è quello che accade prima che il comandante gridi: "Si salvi chi può!".
La volatilità della finanza (creativa o meno), la solidità della Parola.

Pecunia volant, Verba manent?



PS: da repubblica.it di pochi minuti fa

lunedì 22 settembre 2008

Saperi liberi, per tutti

La retorica di Internet? Insopportabile.
Però... però, qui, i sapere sono condivisi, e non stiamo parlando dell'attacco al palazzo d'Inverno, ma del cuore culturale e tecnologico degli Stati Uniti.
MIT OpenCourseware
Stanford Engineering everywhere

mercoledì 10 settembre 2008

Gli ultimi giorni dell'umanità

Oggi, forse, inizia la fine del mondo. Forse
Wired
NYT
La Stampa
Il Sole 24 ORE
(questo è un'ossimoro, oppure, siccome anche il sole verrebbe risucchiato dal buco nero, forse "24 ore" è il tempo che rimane ancora al sole da vivere?)
Neanche Karl Kraus avrebbe saputo fare di meglio.

giovedì 4 settembre 2008

Sociology for dummies


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Queste aspettavano da un po' nel cassetto. Meglio pubblicarle tutte, e non pensarci più.


venerdì 29 agosto 2008

Chilometri zero


Fino all'anno scorso, 'chilometri zero' indicava le auto già immatricolate ma praticamente nuove, vendute con forti riduzioni di prezzo. Da qualche tempo si parla invece della spesa a chilometri zero: comprare frutta e verdura direttamente dai contadini produttori in mercati vicinissimi al luogo di origine dei prodotti. Meno chilometri percorsi dai camion uguale meno inquinamento. Meno intermediari uguale più risparmio. Equazioni che sembrano non fare una grinza, anche se "un indicatore basato solo sullo spazio percorso non può essere una misura attendibile dell'impatto ambientale totale" (scrive Bressanini sull'Espresso, spiegando il perché).
Tant'é, i Farmer's Markets stanno prendendo piede in Italia, forse più per i prezzi ridotti che non per l'italica affezione all'ambiente.

Una recente traversata dell'Italia sull'A1, col suo ordinario corredo di tir in seconda corsia sull'Appennino, mi ha però fatto pensare a quanto la logica del chilometro zero potrebbe ben applicarsi anche all'interno di un supermercato. Per verificarlo, entro in una Esselunga e mi fiondo verso le marmellate alla fragola. Lo scaffale mi offre due barattoli rispettivamente a 1,50 e 1,39 euro. La prima è prodotta in Francia. La seconda in provincia di Padova (molto più vicina a dove mi trovo). Elenco degli ingredienti: uguale. Peso: identico. Prezzo: davvero simile. Compro la padovana: non per un (mai avuto) senso patriottico (anche se giova ricordare chi ha vinto il Mondiale...), ma perché immagino che con un semplice gesto d'acquisto ho fatto fare meno chilometri a un camion. Meno inquinamento. Meno tir in seconda corsia in giro per l'autostrada.

(Lo so, su questo blog a volte siamo seri, a volte la facciamo facile. Un viaggio in A1 che suggerisce forme di rispetto ambientale. Chiunque può smontare questa teoria. Ma siamo sicuri che sia una cattiva idea guardare le etichette, preferendo -a parità di prezzo e condizioni- prodotti più vicini? Certo, la bufala non può che essere campana. Ma la marmellata andrà bene anche se padovana, no...?)

venerdì 11 luglio 2008

Località remote (e buone vacanze)

Cercando di comperare un libro su Internet, mi sono imbattuto nella tabella dei costi e tempi di spedizione: si tratta del vero limite del commercio elettronico nel nostro paese. Nessun grande progetto di commercializzazione potrà mai decollare in un paese con la struttura orografica del nostro. Infatti, su ebay, tanto per fare un esempio, è possibile comperare oggetti che hanno un valore inferiore al costo di spedizione e quindi i venditori si ingegnano a trovare soluzioni alternative.

Ma sul sito in cui stavo navigando mi sono imbattuto in una cosa meravigliosa: l'elenco delle località remote.
Basta scorrerlo per capire che ci troviamo di fronte ad alcuni dei posti più belli d'Italia (in genere piccole isole), luoghi privilegiati di vacanza e che in questi giorni passano da ospitare poche decine di anime (o anche nessuno) a decine di migliaia di turisti, ansiosi d'esotico (io ne ho visitate molte).

Prov., CAP, Località

ME, 98050, ALICUDI (Isola)
CA, 09014, CARLOFORTE (Isola)
ME, 98050, FILICUDI (Isola)
ME, 98050, GINOSTRA DI LIPARI
TP, 91010, KAMMA
ME, 98050, LENI
TP, 91010, LEVANZO (Isola)
ME, 98050, LINGUA
ME, 98055, LIPARI (Isola)
ME, 98050, LIPARI (loc.Acquacalda)
ME, 98050, MALFA
TP, 91010, MARETTIMO (Isola)
ME, 98050, PANAREA (Isola)
TP, 91010, PANTELLERIA AEROPORTO (Isola)
ME, 98050, PECORINI A MARE
ME, 98050, PIANOCONTE
ME, 98050, QUATTROPANI
ME, 98050, SANTA MARINA SALINA
ME, 98050, STROMBOLI (Isola)
PA, 90010, USTICA (Isola)
ME, 98050, VULCANO (Isola)
TP, 91023, FAVIGNANA (Isola)
GR, 58012, GIGLIO CAMPESE (Isola)
GR, 58012, GIGLIO CASTELLO (Isola)
GR, 58013, GIGLIO PORTO (Isola)
GR, 58012, ISOLA DEL GIGLIO (Isola)
AG, 92010, LAMPEDUSA (Isola)
AG, 92010, LINOSA (Isola)
TP, 91017, PANTELLERIA (Isola)
GE, 16030, SAN FRUTTUOSO DI CAMOGLI


E' curioso il destino di certi luoghi: il paradiso e l'inferno paiono toccarsi. Per chi non ci abita sono il luogo anelato, per chi vi risiede sono una maledizione: anche farsi mandare un libro è un'operazione lunga e complicata.

Paradisi artificiosi

Buone vacanze, per chi le fa

venerdì 27 giugno 2008

Petrolio e profezie

Oggi Chakib Khelil, capo dell'OPEC, l'organizzazione dei principali produttori mondiali di petrolio ha fatto una previsione: durante l'estate il prezzo del petrolio potrebbe raggiungere i 170$ al barile. Effetto immediato? L'aumento del prezzo del petrolio! Oh, yes...

Spesso in sociologia si utilizza l'espressione "profezia che si autoavvera", il cosiddetto teorema di Thomas, dal nome del grande sociologo americano, fondatore della Scuola di Chicago, cacciato dal suo posto di lavoro e studio per una questione di moralità matrimoniale.
Se tutti cominciano a credere vera una cosa, quella cosa diverrà vera sul serio (per dirla sinteticamente e male). L'espressione a dire il vero appare spesso abusata, ma l'esempio che faceva l'autore riguardava proprio la finanza (se si sparge la voce che una banca è insolvente, tutti ritirano il proprio denaro e la banca lo diventa davvero).

C'è un nesso tra le altalene emotive della Borsa e la credenza? Sembra assodato. Un vecchio adagio di Borsa dice che "se tutti vendono non stare a chiederti il perché, vendi anche tu". Anche la grande finanza non segue leggi matematiche, ma corre sulle ali delle emozioni (a ricordare gli studi sulla folla di Le Bon più che quelli economici di Von Hayek).

Forse è per questo che il Comune di Milano per ripianare i bilanci qualche anno fa ha sottoscritto dei fondi rischiosi (i "derivati", roba al cui confronto i mutui subprime sono una cosa sicura) e avrebbe pagato una commissione di 73.000.000 di euro anziché di 120.000 (così diceva oggi il TG regionale).

Oggi la grande stampa economica dice che ci fu "demagogia" nel far credere ai cittadini che si trattasse di investimenti sicuri (o semplicemente di investimenti come altri). Non si sente però sapore di autocritica: la demagogia è fatta dalle banche? O magari dagli organi di informazione?

Ora si annunciano bancarotte (la prima, a Taranto c'è già stata) e potrebbero coinvolgere in maniera bipartisan (!) amministrazioni locali di ogni orientamento. Non consoli tutto ciò, ma spinga a riflettere su alcuni mutamenti tumultuosi (un tempo si usava la metafora del turbo-capitalismo o iper-liberismo), che hanno caratterizzato la "rivoluzione conservatrice" degli anni Ottanta. L'economia reale non è più di moda (come gli operai), la finanza vince su tutto, ma è volatile e spesso si confonde con la speculazione (come autorevolmente sostiene il primo pentito del liberismo, Giulio "Robin Hood" Tremonti).

Eppure ancora una volta se la Borsa scende i commentatori parlano di "fatalità": lo si spieghi a chi domani farà benzina al 10% in più di oggi a causa di una dichiarazione pubblica.
Forse è venuto il momento di riprendere in mano le sorti dell'economia, finendola con le sole politiche di lassaiz faire.

venerdì 13 giugno 2008

Emergenza italiani

Per chi pensa ancora che esistano i fatti o l'oggettività, un caso evidente di costruzione sociale.



Con il collega Marco qualche mese fa ci siamo occupato del "musulmano immaginato". La nostra idea non era tanto quella di denunciare un conflitto politico o prendere parte ad esso. L'idea era quella di provare a seguire i processi di costruzione sociale della realtà (Berger e Luckmann sempre siate lodati), in cui l'immaginazione gioca un ruolo ben superiore a qualsiasi struttura, a qualsiasi fondamento "oggettivo" nelle "cose stesse".

La cronaca, cui prestiamo attenzione con sincero interesse antropologico, ci costringe ancora a una riflessione amara.

Tra qualche ora ci aspetta uno scontro calcistico particolare: Italia contro Romania, cioè la replica sui campi di calcio di ciò che da mesi avviene in tv, sui giornali, dai palchi di comizi sempre più accesi. Meglio non ricordare ai nostri che c'è in campo qualche rom romeno, ci potrebbero essere "falli di reazione".
Naturalmente anche noi tifiamo patriotticamente Italia, ci mancherebbe, ma la tentazione di fare come quelli che andranno a seguirla in un campo rom di Milano è forte. E che non vinca il migliore (se no col cavolo che passiamo il turno :-)

Insomma è ormai da tempo immemorabile che in questo paese è "emergenza stranieri" o clandestini (dopo l'emergenza freddo in inverno, caldo in estate e pioggia a primavera; dopo l'emergenza animali abbandonati, petrolio, inflazione, terroristi islamici: in genere in questo ordine, basta guardare il TG).

Invece da qualche giorno alcune notizie ci fanno ancora riflettere su come si costruiscono le emergenze nell'opinione pubblica. La domanda retorica e ingenua è perché non si stia ora gridando "EMERGENZA ITALIANI".

Due episodi recenti, ma ce ne sono altri: due imprenditori del Nord-Est (sic) marito e moglie, prima fanno firmare un'assicurazione sulla vita a un loro dipendente romeno (in nero, of course!) e poi lo bruciano vivo simulando un suicidio.

Ieri, un italiano (dell'hinterland milanese, mica del profondo sud della spazzatura), preso dalla gelosia (così dice), prima strozza e poi mura il cadavere della sua compagna peruviana. Perché lui fa il muratore, gente seria, che non lascia nulla al caso.

In effetti venire in Italia per gli stranieri è pericoloso: emergenza italiani, si potrebbe gridare, ma nessuno lo fa. Perché sarebbe stupido: non si può parlare di emergenza in base a dei casi isolati; sarebbe ingeneroso: ci sono molti esempi di accoglienza in Italia; sarebbe falso: non c'è nessuna emergenza, in realtà. Ma pensiamolo a parti invertite: se degli stranieri avessero fatto le stesse cose, oggi ci sarebbe una seduta straordinaria del Parlamento, qualche comune si costituirebbe parte civile, ci sarebbe una bella marcia o una ronda...

La società in cui viviamo è davvero troppo complessa per poterla leggere in maniera banale o semplicistica. Ma se raccontarlo è un compito gravoso, nulla toglie che sia questo il dovere di chi costruisce l'opinione pubblica e di chi decide il destino di un paese. Poi c'è sempre il tempo del pentimento, ma spesso arriva troppo tardi, quando il latte o il sangue è già stato versato.

venerdì 30 maggio 2008

Giornate Non Standard 2008

Si è appena conclusa l'edizione 2008 delle Giornate Non Standard, scuola di alta formazione in metodologia della ricerca sociale.
E' stata un'edizione speciale, vera ricerca "in the field", pantaloni sporchi di polvere, creatività al potere, scambio, confronto, anche scontro.
Insomma un momento di formazione vera. Quest'anno merita qualche riflessione in più, che ci sarà, ma più avanti.
Intanto una prima riflessione: si è parlato di osservazione, osservazione partecipante ed etnografia. Al di là delle etichette, dopo aver sentito maestri (Antonio De Lillo, Ugo Fabietti, Guido Giarelli) ed esperti (Asher Colombo, Charlie Barnao, Erika Cellini) che hanno presentato le proprie ricerche (in genere in situazioni nascoste, ambigue, pericolose), gli allievi sono stati buttati in acqua. O si nuota o si affoga: "l'etnografia non è per tutti", lo diceva anche Fabietti e "non è adatta a tutte le età", chiosava Daniele Nigris. "Non è un pranzo di gala", aggiungo io, con un vezzo: non ci si può andare con i mocassini (come il sottoscritto).
Eppure non siamo affogati, abbiamo visto e poi guardato ancora meglio, abbiamo discusso e cercato di capire che cosa avevamo visto. E alla fine il quadro era più ampio (allargamento degli orizzonti cognitivi), più complesso (differenziazione), meno semplicistico (il dentro determina e riorienta il fuori e viceversa).

Quando mi è capitato di portare questionari (lo strumento standard per eccellenza) nelle scuole, mi sono guardato intorno e forse ho capito molte cose che non potevano essere raccolte nel questionario (anche se il questionario chiedeva di annotarle).
Le note di campo dell'antropologo o dell'etnografo, invece, sono parte essenziale del processo di analisi.
Le note per ora le porto ancora confusamente con me. Ma presto cercherò di condividerle.

PS: un grazie speciale ai nuovi eroi metropolitani, agli impavidi della stazione.

martedì 20 maggio 2008

L'odissea dell'homo rumenicus

Ma cosa pensa un rumeno che vive in Italia?
"E' dura ...
In Italia saremo tutti fratelli e amici quando il napoletano si sentira al nord come a casa. Ma se questi non si sopportano tra loro, io cosa devo pretendere?"
Questo è un blog, purtroppo nella lingua madre, ma qualche indizio in italiano si trova. Meno male che c'è Google: traduttore rumeno-italiano!

Trasformare l'esperienza quotidiana

Una brevissima segnalazione, per un vero genio: un tassista di Duesseldorf, in Germania, che si è fatto il blog.
C'è tutto: i tedeschi con i baffoni, quelli che salgono sulla vettura e verso la telecamera gridano: "ciao mamma!" (come si dice in tedesco: Hallo, Mutty!?)... piccole storie di vita vissuta.
Anche senza sapere la lingua, una visita è indispensabile.
Fare il tassista non è il massimo forse (basta pensare ai tassinari romani e al loro livore politico), ma questo ricorda da vicino il casellante che per rompere la routine inventava storie e giochi matematici sulle auto che passavano dal suo posto di lavoro.

C'è ancora spazio per l'umano.

La Cina ora è più vicina?

Il terremoto che ha devastato la Cina è stato potentissimo. Ad oggi il bilancio dei morti supera le 70.000 persone. Se non fossero cinesi, sarebbe una notizia sconvolgente ma, si sa, con loro si tende a ignorare i grandi numeri.

Il Sichuan regione importante storicamente e politicamente è devastato (è questa la terra della brechtiana "anima buona"?). Nel Sichuan vengono mandati a rieducarsi i giovani di città durante la Rivoluzione Culturale e la durezza della vita di campagna di allora non deve essere molto diversa da quella di oggi (una bella lettura in proposito potrebbe essere Cigni Selvatici. Tre figlie della Cina, di Chang Jung).

Tra le molte immagini che giungono in Occidente alcune colpiscono più di altre e sono quelle della disperazione gridata, urlata, sono i capelli strappati, le lacrime asciutte del pianto dei sopravvissuti.
Della Cina e dell'Oriente ci siamo fatti un'immagine di serena rassegnazione o comunque dell'incapacità di mostrare sentimenti in pubblico: il famoso sorriso imbarazzato che colpisce soprattutto noi mediterranei. Quando si salutano infatti non si toccano, ma rispettosamente chinano il capo. Noi ci stringiamo le mani o peggio ci baciamo sulle guance.
Invece in questi giorni, il circo mediatico globale ci mostra il dolore, pubblico ed evidente.

La Cina ieri si è fermata per alcuni minuti per commemorare le vittime. Le cronache dicono di un miliardo e mezzo di persone ferme, in silenzio, tutte insieme.
Si dice anche che si tratta di un unicum, almeno nella storia recente: le autorità non nascondono la catastrofe ma la mostrano al mondo e la condividono.
Oggi forse davvero la Cina è più vicina: noi, spettatori globali, ci aspettavamo le urla e i pianti e li abbiamo avuti.
Anche loro sono un po' più come noi, se questo è un bene. Di certo, sa di omologazione (ma forse dipende dalla nostra misconoscenza della ieraticità asiatica).

Uguali a noi, che del dolore e della sua rappresentazione mediatica abbiamo fatto una bandiera: si va ai funerali di casi di cronaca o di personaggi famosi a piangere e battere le mani; si fanno i minuti di silenzio allo stadio (battendo le mani); per non parlare di teledolore, la tv del dolore.
Siamo noi allora i globalizzatori, gli esportatori di stili di vita.

Intanto mandiamo un pensiero alle vittime cinesi, nel centenario infausto del terremoto di Messina.
E pensiamo anche al "potenziale politico delle catastrofi", di cui parla Ulrich Beck: forse anche il terremoto cinese potrebbe essere davvero l'occasione per un mutamento profondo del paese più importante del mondo. Come lo fu Bhopal in India o Chernobyl in URSS.

mercoledì 16 aprile 2008

Sbronza post-elettorale

Nel mare di considerazioni che seguono il voto, nel brio dei popolani libertari, nello smarrimento dei veltronisti e nell'indifferenza dei tronisti, un vago senso di quiete sembra mettere d'accordo molti, anche se non tutti. Ici o non ici, pontesullostretto o meno, pare evidente che i telegiornali della sera dimenticheranno il carosello di dichiarazioni in 5 secondi dei leader di formazioni che rappresentavano poco più di se stesse.

Che l'esito del voto non sia così inatteso, lo spiega bene Ilvo Diamanti su Repubblica di oggi.
Che la strategia leghista del 'padroni a casa nostra' dia evidenti risultati, è noto agli studiosi di moschee, ed io e Michele lo abbiamo visto chiaramente nell'analisi della vicenda del centro culturale islamico di Magenta.
Che la sinistra radicale sia stata ritenuta dagli elettori la causa delle turbolenze del governo Prodi, lo possiamo dire con una vignetta di ElleKappa: 'Dispiace che la Sinistra Arcobaleno sia scomparsa'. 'E non sia qui a godersi il frutto del suo lavoro'.

Un parlamento senza De Mita e Mastella è il segnale di una svolta attesa. Le cronache politiche di queste ore ci parlano di un PD con una sua identità precisa che ha fatto piazza pulita della confusione a sinistra, e di un Berlusconi finalmente moderato nei toni. Come sempre, occorre un po' di cautela per cantar vittoria: facciamoci almeno passare la sbronza post-elettorale, per vedere se ci sveglieremo con Mara Carfagna ministro e i 'trombati' eccellenti reinseriti con maquillage in qualche forza politica.

lunedì 14 aprile 2008

Fiduciosa

Pippa Bacca, in veste di sposa, è stata tradita da un destino senza pietà. Nelle ore delle elezioni, con un paese preso dalla politica e dall'antipolitica, arriva una notizia terribile. La "stravagante" artista milanese, come la definiscono i giornali, era partita per un viaggio con i colori e i temi della fiducia e dell'apertura agli altri. E gli altri, l'altro, il prossimo, l'hanno tradita.

Alcune considerazioni

Conoscevo Pippa di vista: stessa scuola, stesso quartiere, stesso ambiente, la pittura milanese e le sue radici negli anni Sessanta. Ma questo l'ho scoperto solo di recente.
In effetti i giornali in questo hanno ragione, era un po' stravagante. Nella città della moda e del "nero Armani", andava in giro vestita di verde. Credeva nell'arte e viveva in mezzo ad essa. Viveva in un mondo il cui tratto essenziale è la paura e faceva un viaggio candidamente in bianco, proclamando fiducia nel prossimo. Anzi, "per dimostrare che dando fiducia" si può ricevere aiuto.
E da Milano è arrivata fino a Instambul, non oltre.

I giornalisti in questi giorni, in genere, hanno avuto il tono della vecchia zia che dice: "Io l'avevo detto". "Pensate, cari spettatori, andava in giro proclamando la fiducia nel prossimo": il tono canzonatorio era evidente. Se un turco balordo è segno di un destino spietato, l'aria di moralismo dei mass media non ha nulla di inevitabile.

Nella teoria del capitale sociale che tanto valore ha nelle scienze sociali, la fiducia è un carattere essenziale. Fiducia è il nome del vincolo che tiene insieme la società nelle sue articolazioni.
Pippa Bacca non lo sapeva ma stava cercando di dimostrare un teorema sociale.
Non credo sia necessario provare le teorie sul proprio corpo. E credo che questa vicenda terribile non dimostri nulla: quella di Pippa continua ad essere l'unica prospettiva possibile, se si spera non in "un futuro migliore", ma in un futuro tout court.

lunedì 7 aprile 2008

Cronaca nera, immigrazione, specialità italiane

Qual è il modello di integrazione dei cittadini di origine straniera del nostro paese? La cronaca nera forse fornisce risposte, amare


Ogni paese europeo ha proprie modalità di integrazione: i modelli più studiati sono quello differenzialista inglese e universalista francese. Ispirati a idee diverse di società, con storie molti diverse, i due modelli hanno storicamente mostrato i loro limiti: dagli attentati della metropolitana di Londra all'esplosione periodica delle Banlieues.
Il modello italiano presenta caratteri diversi: non siamo un paese ex-colonialista, non riceviamo una migrazione monoetnica. Al contrario, gli attuali flussi migratori ricordano di più l'epopea americana che non l'esodo degli algerini in Francia o dei pakistani e indiani in Inghilterra.
La reazione dell'opinione pubblica oscilla ormai patologicamente da anni tra accoglienza e rifiuto. Ancora oggi, in una compagna elettorale con toni insolitamente tranquilli, almeno quattro partiti politici promettono quello che non possono mantenere: la cacciata degli stranieri o lo stop all'immigrazione.

Eppure qualcosa nel frattempo si muove: il modello italiano avanza, bene o male.

Nel paese con i tassi di fertilità più basso d'Europa, anche gli immigrati si stanno adeguando: in sostanza, fanno meno figli rispetto alle medie dei loro connazionali nei paesi d'origine.

Ma ci sono altri fatti, diciamo di cronaca nera, che raccontano della presenza degli stranieri nella nostra società. Mal comune e mezzo gaudio, verrebbe da dire.

Sono almeno due le "specialità italiane" in cui sono coinvolti stranieri nelle cronache recenti: in primo luogo i morti sul lavoro, nei cantieri edili soprattutto, hanno sempre più spesso nomi stranieri (gli odiati rumeni, soprattutto).
Ma è una seconda caratteristica italiana che ancora oggi ci racconta la comunanza di destino tra italiani autoctoni e nuovi cittadini italiani: un mese fa vicino a Roma una giovane adolescente di origine tunisina, andando a buttare la spazzatura sotto casa, veniva investita e uccisa da una giovane donna italiana (che non si fermava a prestarle aiuto).
Poco dopo, sempre vicino alla capitale, ubriachi al volante causavano una carambola di auto che investiva madri e figli in attesa alla fermata dello scuolabus: tragedia nella tragedia, quella dell'uomo rumeno che perde moglie e figlia.
Ieri nel centro di Torino, un giovane salvadoregno viene investito da un altro pirata (o una pirata): muore, l'investitore fugge.

Il comune destino, non sarà la comunità di sangue, cui si appellano i neo-nazionalismi, ma ci lega, indissolubilmente.

martedì 19 febbraio 2008

Perdere la testa. Il cappello tra moda e follia

'Perdere la testa' è il titolo della mostra che si terrà ad Alessandria dal 24 febbraio al 4 maggio 2008 presso il Museo del Cappello Borsalino. La mostra, dedicata all'iconografia del cappello e della moda nella collezione di arte Outsider dell'Atelier di Pittura Adriano e Michele di san Colombano, indaga il rapporto tra cappello e follia attraverso le opere degli autori che lavorano all'interno dell'ospedale psichiatrico Fatebenefratelli di San Colombano.

Presentazione della mostra sabato 23 febbraio, ore 17.30
Saluti introduttivi di Piercarlo Fabbio (Sindaco di Alessandria), Paolo Bonadeo (Assessore alla Cultura e al Turismo), Roberto Gallo (Presidente Fondazione Borsalino).
Interventi di Elisa Fulco (curatrice della mostra, Fondazione Borsalino), Giovanni Foresti (psichiatra e direttore Fatebenefratelli, San Colombano), Teresa Maranzano (responsabile dell'Atelier di Pittura Adriano e Michele), Marco Pedroni (sociologo, Modacult, Università Cattolica di Milano).

Moda, identità e follia. Il ruolo sociale dell’abbigliamento
di Marco Pedroni

I lettori di Harry Potter ricorderanno che nella scuola di magia di Hogwarts, all’inizio di ogni anno scolastico, i nuovi studenti devono sottoporsi a un rito: un Cappello Parlante viene posto sopra la loro testa e stabilisce a quale delle quattro case di Hogwarts ogni piccolo mago apparterrà. Il cappello, il cui giudizio è inappellabile, legge nella testa e nel cuore degli allievi quale virtù prevale sulle altre: il coraggio di Grifondoro, l’astuzia di Serperverde, la lealtà di Tassorosso o l’intelligenza di Corvonero.
Anche la sociologia sa che il cappello non mente. Pur non potendo penetrare nell’animo di chi lo indossa, il copricapo ne rivela con chiarezza spesso sorprendente la posizione sociale, fotografando la sua identità di classe e di genere. Il cappello del nobile non è quello dell’operaio, quello femminile non è nemmeno lontanamente confondibile con un modello maschile. Ma anche i cappelli hanno una storia sociale, e nel tempo possono trovarsi a coronare teste molto diverse tra loro....

Il testo integrale è pubblicato sul catalogo della mostra: www.edizionidipassaggio.it

mercoledì 13 febbraio 2008

Cuore di suino. Nei tortellini

E' da qualche giorno che il maiale tormenta le nostre cronache. Dopo il post sulla 'via suina alla politica italiana', scopriamo che i tortellini al prosciutto contengono meno del 10% di prosciutto. Insieme a carne di suino, grasso di suino, cuori di suino, trippini di suino. Ma non è l'unica sorpresa per chi non legge attentamente le etichette dei prodotti (cioè il 99,9% della popolazione). Ecco il link all'articolo di Jenner Meletti su Repubblica: http://www.repubblica.it/2008/02/sezioni/cronaca/giungla-etichette/giungla-etichette/giungla-etichette.html.

venerdì 8 febbraio 2008

Metafore politiche

La via suina alla politica italiana



Se è vero che "Chi parla male pensa male (e vive male)" (come dice Nanni hotty Moretti); è anche vero che si usa il turpiloquio quando si è privi di altre risorse linguistiche (come mi ricordava bonario il mio Preside craxiano al liceo). Infine, non possiamo dimenticare che "Le parole sono pietre" (Carlo Levi).
Proprio qualche giorno fa, La Repubblica ci ricordava il dramma dell'analfabetismo dei laureati (illetterismo).

E allora che cosa dobbiamo pensare delle parole della politica?
Che cosa dire del linguaggio e delle metafore scelte dal nostro personale politico? Un esempio tra altri: la legge elettorale con cui siamo condannati ad andare a ri-votare è denominata Porcellum visto che il suo estensore, il senatore della Lega Calderoli, l'aveva definito (in un guizzo di sincerità) "una porcata". Lo stesso senatore è anche autore del famoso "Maiale-Day", la camminata con il porcello sul luogo in cui si vuole costruire una moschea.

"Sei un maiale!", costituirà ancora offesa o si configura come definizione tecnica?

PS: che cosa ne penserà "il Mortadella"?".

martedì 29 gennaio 2008

Il mastellismo come volontà e rappresentazione


Volontà di essere costantemente l'ago della bilancia, rappresentazione dell'italica abitudine ad erigere barricate facendo pesare il proprio distinguo minoritario contro l'interesse pubblico. Incarnazione autoproclamatasi di un bene pubblico invocato come veste per il proprio smisurato ego o interessi campanilistici nemmeno troppo celati, quelli che oggi si chiamano diniani e mastelliani, ma che ieri hanno avuto e domani avranno altri nomi, si concedono il lusso di far cadere un governo non su temi nobili dell'agenda politica, ma sfruttando una situazione di empasse politico-giudiziaria cui il paese, tutto sommato, guarda con noia e disinteresse.
Così i nostrani mastellismi si prendono la responsabilità di perpetuare instabilità, con tutti gli effetti che ciò può avere sui micromondi vitali dell'economia, della cultura, della società. Ognuno guarda al suo orticello, e se noi dovessimo guardare al nostro - il panorama della ricerca universitaria e dei dottorandi - dovremmo lamentarci per quell'aumento delle borse di studio previsto in finanziaria e in attesa di un decreto attuativo - che, in assenza di un esecutivo, non verrà, o verrà più tardi. I dottorandi borsisti attendevano che l'assegno passasse dagli attuali 820 euro mensili a circa 1.000. Un aumento intorno ai 2.000 euro annuali che, pur mantenendo l'Italia dietro agli altri paesi europei, avrebbe segnato un passo importante nella ridefinizione di ruolo dei giovani ricercatori. Perché la ricerca universitaria si apra a coloro che sono capaci, e non ponga barriere all'ingresso per chi non si può permettere il lusso di campare con assegni da fame, andando ad ingrossare le fila dei "bamboccioni" di Padoa-Schioppa inchiodati nella casa paterna. Oppure, come più spesso avviene, costringendo i dottorandi ad una quantità di altre occupazioni parallele per "arrotondare".
Ma usciamo dal nostro orticello. Il micromondo universitario è solo una delle tante spie di quel che sta dietro l'instabilità di governo: qualcuno va, qualcun altro arriva, i processi si interrompono a metà, subiscono rallentamenti, nel peggiore dei casi stop definitivi. Sarebbe interessante raccogliere piccole storie delle conseguenze dell'instabilità dei vari orticelli: cosa succede in un ospedale quando cade un governo? cosa in un'aula giudiziaria? cosa nel commercio al dettaglio? cosa in una famiglia? Quante piccole ma fondamentali attese, appese a iter legislativi che d'improvviso si bloccano, si infrangono nel mastellismo?
Non può meravigliarci più di tanto il senso di disaffezione a una politica che tanto somiglia al Risiko: una dimensione parallela e irreale dove i giocatori invadono e si ritirano, lanciano dadi e pescano carte, come se quello che fanno avesse conseguenze solo sul tabellone e non, invece, sul mondo che comincia fuori dal tavolo.

lunedì 28 gennaio 2008

La moschea che non c'è

La nuova "battaglia di Magenta" e i conflitti con le comunità islamiche in Lombardia

Il recente caso (autunno 2007) dell’omicidio di Giovanna Reggiani alla stazione romana di Tor di Quinto ad opera di un rumeno dimostra come
scelte rilevanti in tema di governo delle migrazioni sono prese più sotto la pressione dell’opinione pubblica e dei resoconti giornalistici che come esito di riflessioni e valutazioni ponderate. Al di là della sua legittimità, il decreto espulsioni varato dal governo dopo questo episodio è parso a molti una scelta frettolosa ed emotiva. Questo evento riporta ancora una votla alla luce la riflessione secondo cui le politiche relative alla migrazione siano nel nostro paese frutto di reazione e adattamento, più che esito di processi attivi.
In tema di immigrazione
la rappresentazione mediatica ha un ruolo chiave nella costruzione dell’immagine dell’Altro, dell’immigrato, dell’extracomunitario. Il caso che vogliamo presentare è quello dell’immigrazione musulmana in Lombardia, con particolare riferimento alla vicenda della moschea di Magenta, episodio “ordinario” che non ha guadagnato l’attenzione delle cronache nazionali.

In
Lombardia gli scontri scatenati dalla presenza di moschee sono particolarmente frequenti e violenti. La nostra regione ospita il maggior numero di immigrati musulmani e centri culturali islamici del paese, ed è stata teatro di alcuni tra gli episodi più “mediatizzati” di questo scontro: viale Jenner, via Padova, via Quaranta, solo per restare a Milano; la profanazione del suolo destinato ad una moschea a Lodi, che il leghista Calderoli poi brevetta con il nome di “Maiale-day”; la chiusura della moschea di Gallarate; la contestata concessione della sala consiliare di Oggiono (Lecco) a un gruppo di musulmani per il ramadan (dopo la polemica, i musulmani restituiscono le chiavi al sindaco); gli attentati a colpi di bottiglie questa estate nella vicina Abbiategrasso.
Fin qui casi noti. Ma cosa accade quando il conflitto non supera i confini dell’attenzione territoriale? Abbiamo analizzato il caso di
Magenta, cittdina di 23mila ab. dell’Ovest Milano, gli attori coinvolti, la rappresentazione del conflitto da parte dei media locali.
Descriviamo brevemente il caso: nel luglio 2006 l’associazione culturale Yaquta, espressione della comunità pakistana del magentino, affitta un capannone in una zona non centrale di Magenta. Il contratto stabilisce che «il proprietario autorizza il conduttore ad effettuare una attività di centro culturale e di oratorio». Il tentativo di ottenere un luogo di ritrovo era già fallito in comuni limitrofi. Il 7 settembre il settimanale locale «Città Oggi», distribuito gratuitamente casa per casa, si chiede: «Sta nascendo una moschea in città nel quartiere nord?». L’allarme è lanciato e, attraverso il resoconto approssimato dei settimanali locali, darà luogo a fantasiose descrizioni di una moschea frequentata da 3-400 pakistani rumorosi e maleducati. L’amministrazione comunale di centro-destra si schiera contro l’insediamento islamico e invia 23 multe identiche (successivamente annullate dal Tribunale di Rho) contestando violazioni edilizie e problemi igienico-sanitari; nella primavera arriva lo sfratto da parte del proprietario dello stabile. A prendere le difese dei pakistani è il
Comitato di solidarietà con i migranti, legato agli ambienti politici di centro-sinistra del magentino. Inevitabile la politicizzazione dello scontro. Il Comitato offre assistenza legale a Yaquta e organizza iniziative volte alla conoscenza reciproca (ad esempio la «cena lumbard-pakistana»); sul piano comunicativo, si scontra violentemente con l’amministrazione e la Lega Nord, duellando sui giornali locali a colpi di comunicati stampa.
Questi ultimi, se analizzati, rivelano due opposte retoriche: quella del
«noi contro loro» della Lega, che insiste sulla difesa dei nostri territori e dei nostri valori contro gli irrispettosi extracomunitari; e quella del «noi come loro» che esprime, nel Comitato, una duplice identificazione: come loro, noi siamo lavoratori; come loro, noi siamo (o meglio: siamo stati) migranti. Lo scontro è particolarmente forte durante la campagna elettorale che, nella primavera 2007, vede trionfare l’uscente giunta di centro-destra con quasi il 70% dei consensi.
L’attenzione dei media locali si placa, ma il caso si chiude prevedibilmente con la
sconfitta dei pakistani, che perdono il ricorso contro lo sfratto.

Perché un capannone frequentato da 40 pakistani riesce a creare tutto questo clamore?
L'insediamento di comunità di immigrati musulmani genera sempre più spesso conflitti con le popolazioni locali, soprattutto quando si traduce in una richiesta di spazi. Quelle che vengono impropriamente chiamate “moschee”, e che in realtà sono più spesso dei centri culturali islamici, rappresentano il
segno della visibilizzazione dell'islam sul territorio, come sottolinea Renzo Guolo, e attivano spesso la miccia del conflitto tra “comunità locali” e immigrati. Le moschee sono il segno anche di un passaggio dall'immigrazione economica (prevalentemente) all'immigrazione di popolamento (detto altrimenti: il musulmano da attore economico, venuto in Italia senza la famiglia e per lavorare, diventa presenza stabile e attore religioso, come ci ricorda Stefano Allievi).

Il filtro creato dai media nazionali opera fortemente anche sulle vicende locali. L’
immagine del musulmano post 9/11 è talmente forte e radicata che agisce da sostrato sul quale si innestano giudizi e pregiudizi legati al caso in questione, senza che tuttavia si produca un vero e proprio dibattito sulla vicenda in oggetto: ad alimentare la polemica è un’immagine astratta del musulmano quale l’abbiamo costruita negli ultimi anni grazie a (o a causa di) eventi terroristici, interventi dal pulpito del Fallacismo o dell’anti-Fallacismo, kamikaze palestinesi, proclami di Bin Laden e suoi luogotenenti. Prima di valutare se i pakistani di Magenta stanno violando o meno la legge italiana, se hanno diritto o meno di riunirsi in preghiera, ognuno di noi ha già costruito dentro di sé un “musulmano immaginato” lontano anni luce da quello reale che vive nel nostro quartiere. Su questa prima, potente costruzione sociale se ne innesta una seconda, quella che emerge dalle fonte di informazione locale e dai protagonisti della nuova “battaglia di Magenta”.
Nella costruzione sociale di questo immigrato pakistano
la conoscenza diretta ha un peso quasi irrilevante. Durante la nostra osservazione sul campo qualcuno ci ha raccontato di questi uomini con «barba, pigiamino e cappellino» che ogni tanto si vedono alle poste, in giro per la città.
Mentre la mappa del territorio lombardo si va riempiendo di «casi moschea», l’indagine empirica della vicenda di Magenta è stata per noi un’occasione di riflessione sul ruolo dei media, anche quando si tratta di giornali locali a limitata diffusione. Le fonti di informazione operano come
grancassa del timore della popolazione, esaltando le voci stereotipate e relegando nell'oblio le posizioni dialoganti. Questo è il campo di un conflitto in cui la “posta in gioco” è la codificazione (Weber), la rappresentazione (Bourdieu): cioè i criteri di denominazione, rappresentazione e percezione: la componente «non massimalista» del Comitato non è rappresentata, così come la Chiesa; dei pakistani si parla senza che nessuno si prenda la briga di sentire il loro parere o fare una seria inchiesta su quel che avviene nella moschea; nei giornali prende corpo una presunta «voce del quartiere» che si leva contro i pakistani (ma alcune verifiche dirette da parte nostra ci hanno mostrato che alcuni residenti nella via della moschea non sapevano nemmeno della sua esistenza).

Come fare a non cadere in trappola? L’analisi della rappresentazione mediatica necessita di un lavoro di osservazione sul campo, l’unico che può far emergere sovra o sotto-rappresentazioni. La rappresentazione stessa della vicenda come un «campo» di conflitto, con relazioni di esplicita o tacita belligeranza o accordo, può essere uno strumento per raccontare i processi di semplificazione, mistificazione e distorsione di questo scontro, anche a chi non ha la pazienza (come voi) di ascoltare la noiosa ricostruzione dell’intera vicenda. Per decostruire, insomma, una rappresentazione monolitica che, come scrive Allievi, fa comodo «al giornalista, a cui consente di scrivere qualsiasi generalizzazione senza bisogno di verifica», così come «al politico, che su questi temi e su questo modo di affrontarli specula e costruisce le proprie rendite di posizione»; e, infine, «al destinatario del processo di comunicazione, che vede così confermati i propri pre-giudizi, e toglie la fatica di pensare in proprio».
La
semplificazione, il demone della semplicità per dirla con Bergson, è il grande protagonista della rappresentazione del diverso: strumento potente che ci permette di ridurre la complessità, ormai difficilmente rappresentabile e quindi pensabile, di un reale, sempre più sconvolto da catastrofi ambientali, economiche, sociali.

In conclusione, ci chiediamo se questo tipo di analisi – un’analisi del campo del conflitto attraverso la sua rappresentazione mediatica, bilanciata con l’osservazione partecipante e interviste a testimoni privilegiati – possa avere una qualche utilità che vada oltre il semplice intento documentale.
Ciò che questa analisi mette in luce è che gli attori in campo competono per poste in gioco molto diverse: per i pakistani il diritto di riunione, di preghiera, ma anche la richiesta di visibilità sociale; per gli attori politici il mantenimento della propria posizione ai fini di un rafforzamento elettorale (Lega). Ma
ciò che è in gioco è soprattutto la possibilità e la capacità di nominare, codificare, rappresentare: chiamare moschea un centro culturale islamico, creare panico nella città a dispetto dell’assenza di una minaccia reale, trasformare in una guerra di religione e in uno scontro tra culture quello che è una lotta politica tra schieramenti con opposte concezione del ruolo dell’accoglienza.
Fin qui siamo ancora su un piano accademico. Spostandoci, forse con troppa ambizione, sul piano della gestione del rapporto con l’immigrato, ci sembra che un’analisi di campo possa essere utile a verificare come agiscono gli strumenti istituzionali nei confronti degli immigrati. A livello legislativo, il caso Magenta pone dei
dubbi sull’applicazione della legge regionale 12/2005; a livello amministrativo, le 23 multe inviate ai pakistani traducono un atteggiamento di chiusura e di rifiuto da parte delle forze politiche che governano la città, e il loro annullamento da parte del tribunale di Rho ne dimostra l’illegittimità. D’altronde, il colore politico dell’amministrazione è tutt’altro che ininfluente sull’esito delle vicende che vedono al centro dell’attenzione le moschee: lo dimostra il caso di Colle Val d’Elsa, analizzato da Fabio Berti e finito al centro delle cronache nazionale grazie agli interventi di Oriana Fallaci e di Magdi Allam. A Magenta l’amministrazione di centro-destra osteggia la moschea e nasce un comitato di cittadini pro-moschea; a Colle, specularmente, l’amministrazione di centro-sinistra appoggia la costruzione di una moschea, e il comitato si costituisce contro di essa. In ogni caso l’azione amministrativa, pro o contro, segna fortemente il corso degli eventi.

La Lombardia offre alle cronache e all’occhio della sociologia molte situazioni di tensione tra comunità locali e immigrati musulmani. Quella che ci chiediamo – la nostra proposta, insomma, tutta da discutere – è se un tipo di analisi così condotta possa essere uno strumento utile per costruire e leggere una mappa dei conflitti in Lombardia.