Il termine coolhunting nasce negli anni ’90 per identificare l’attività di ricerca di tendenze all’interno dei mondi del consumo giovanile. La «caccia di tendenze» viene nobilitata come attività professionale da un articolo di Gladwell su The New Yorker, mentre è con No Logo di Naomi Klein che il coolhunting diventa una tema familiare ad un più vasto pubblico.
Il coolhunter svolge un lavoro di ricerca (anzi, letteralmente di «caccia») di ciò che è considerato cool nelle subculture giovanili, attraverso l’osservazione dei trend che si sviluppano nella fascia d’età compresa tra i 12 e 24 anni. Le aree di osservazione spaziano dall’abbigliamento alla musica ai prodotti tecnologici, coinvolgendo tutte le manifestazioni della pop culture, in particolar modo quelle legate agli stili di strada. Una visione romantica e stereotipata vuole che il coolhunter sia un giovane, necessariamente cool, che percorre con taccuino e fotocamera digitale le città e i luoghi frequentati dalle subculture, traendone una sorta di materiale etnografico sulla base del quale pubblicitari e responsabili di marketing possano ridisegnare l’offerta e la comunicazione dei propri prodotti.
Il coolhunting è in realtà un fenomeno tutt’altro che trascurabile, e si presta a differenti chiavi di lettura. Se, nella prospettiva delle strategie aziendali, esso rappresenta la nuova frontiera di un marketing che cerca di anticipare il consumatore piuttosto che seguirlo, da un punto di vista culturale è uno dei sintomi più evidenti della commercializzazione della cultura giovanile.
La sostituzione dell’età alla classe come variabile che dà prestigio all’innovatore di moda ha rovesciato il classico modello trickle-down di diffusione della moda nel suo opposto, ovvero un modello trickle-up in cui è la strada a dettare gli stili. Ecco allora che il coolhunter, incaricato di scovare le tendenze che si annidano lontano dalle passerelle, si trova a svolgere un ruolo cruciale nel circuito produzione-consumo. Il suo lavoro di scoperta delle tendenze alla fonte permette alle aziende di influenzare il loro movimento, e contemporaneamente determina un’accelerazione senza precedenti di tempi di ideazione e produzione, nonché dei cicli della moda.
Il coolhunting costituisce un interessante modello della diffusione di innovazioni, cui è possibile applicare il paradigma in 5 stadi formulato nell’ambito degli studi rurali di Ryan e Gross: lo stile cool è adottato da pochi «innovatori», i quali contagiano un ristretto gruppo di «adottatori precoci»; da qui la tendenza si diffonde prima ad una «maggioranza precoce» e poi ad una «maggioranza tardiva» di consumatori, finché si rompono anche le resistenze dei «tradizionali». Le aziende di moda possono intervenire nel ciclo della tendenza accelerando i passaggi e la velocità del contagio, delegando ai coolhunter il compito di osservare l’evolversi degli stili degli «innovatori».Infine, il mestiere del coolhunter può essere interpretato alla luce della teoria della violenza simbolica, espressione utilizzata da Bourdieu per indicare una forma di violenza dolce, quasi invisibile, che si esercita attraverso le forme puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza. Se anche è vero che il cool non può essere prodotto, ma solo osservato (come sostiene Gladwell), è ancor più vero che l’intervento della macchina del marketing si appropria dello stile emergente, «bruciandone» l’autenticità in brevissimo tempo. Mediante la violenza simbolica alcuni significati si impongono come legittimi, dissimulando le relazioni di forza di cui in realtà sono espressione. Il mito della moda nata dalla strada nasconde così un duplice rapporto non paritario: da una parte quello tra produttori (che si appropriano delle tendenze attraverso i coolhunter) e subculture espropriate del proprio stile; dall’altra quello tra produttori e consumatori (che offrono la propria spontanea adesione all’immagine di coolness creata e venduta dalle aziende).
Il coolhunter svolge un lavoro di ricerca (anzi, letteralmente di «caccia») di ciò che è considerato cool nelle subculture giovanili, attraverso l’osservazione dei trend che si sviluppano nella fascia d’età compresa tra i 12 e 24 anni. Le aree di osservazione spaziano dall’abbigliamento alla musica ai prodotti tecnologici, coinvolgendo tutte le manifestazioni della pop culture, in particolar modo quelle legate agli stili di strada. Una visione romantica e stereotipata vuole che il coolhunter sia un giovane, necessariamente cool, che percorre con taccuino e fotocamera digitale le città e i luoghi frequentati dalle subculture, traendone una sorta di materiale etnografico sulla base del quale pubblicitari e responsabili di marketing possano ridisegnare l’offerta e la comunicazione dei propri prodotti.
Il coolhunting è in realtà un fenomeno tutt’altro che trascurabile, e si presta a differenti chiavi di lettura. Se, nella prospettiva delle strategie aziendali, esso rappresenta la nuova frontiera di un marketing che cerca di anticipare il consumatore piuttosto che seguirlo, da un punto di vista culturale è uno dei sintomi più evidenti della commercializzazione della cultura giovanile.
La sostituzione dell’età alla classe come variabile che dà prestigio all’innovatore di moda ha rovesciato il classico modello trickle-down di diffusione della moda nel suo opposto, ovvero un modello trickle-up in cui è la strada a dettare gli stili. Ecco allora che il coolhunter, incaricato di scovare le tendenze che si annidano lontano dalle passerelle, si trova a svolgere un ruolo cruciale nel circuito produzione-consumo. Il suo lavoro di scoperta delle tendenze alla fonte permette alle aziende di influenzare il loro movimento, e contemporaneamente determina un’accelerazione senza precedenti di tempi di ideazione e produzione, nonché dei cicli della moda.
Il coolhunting costituisce un interessante modello della diffusione di innovazioni, cui è possibile applicare il paradigma in 5 stadi formulato nell’ambito degli studi rurali di Ryan e Gross: lo stile cool è adottato da pochi «innovatori», i quali contagiano un ristretto gruppo di «adottatori precoci»; da qui la tendenza si diffonde prima ad una «maggioranza precoce» e poi ad una «maggioranza tardiva» di consumatori, finché si rompono anche le resistenze dei «tradizionali». Le aziende di moda possono intervenire nel ciclo della tendenza accelerando i passaggi e la velocità del contagio, delegando ai coolhunter il compito di osservare l’evolversi degli stili degli «innovatori».Infine, il mestiere del coolhunter può essere interpretato alla luce della teoria della violenza simbolica, espressione utilizzata da Bourdieu per indicare una forma di violenza dolce, quasi invisibile, che si esercita attraverso le forme puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza. Se anche è vero che il cool non può essere prodotto, ma solo osservato (come sostiene Gladwell), è ancor più vero che l’intervento della macchina del marketing si appropria dello stile emergente, «bruciandone» l’autenticità in brevissimo tempo. Mediante la violenza simbolica alcuni significati si impongono come legittimi, dissimulando le relazioni di forza di cui in realtà sono espressione. Il mito della moda nata dalla strada nasconde così un duplice rapporto non paritario: da una parte quello tra produttori (che si appropriano delle tendenze attraverso i coolhunter) e subculture espropriate del proprio stile; dall’altra quello tra produttori e consumatori (che offrono la propria spontanea adesione all’immagine di coolness creata e venduta dalle aziende).
* Il paper è stato presentato al Convegno Internazionale "Moda e stratificazione sociale" (Milano, Università Cattolica, 11 maggio 2007) nella sessione cool.
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