Negli Stati Uniti d'America, il paese più ricco del mondo, la sanità non funziona. Abbiamo un sistema di ricerca, ospedali, professionisti, tutti di livello eccellente; ma il sistema può essere al massimo definito mediocre. E il problema risiede nel fatto che dal punto vista organizzativo è più al servizio del profitto che dei pazienti.
E' stato più o meno questo l'attacco del prof. David Mechanic, sociologo americano della Rutgers State University of New Jersey. L'occasione era l'apertura del convegno "Scienze Sociali e salute nel XXI secolo: nuove tendenze, vecchi dilemmi?" (Forlì dal 19 - 21 aprile), in occasione del V anniversario della rivista "Salute e società", uno dei luoghi privilegiati della riflessione sociologica sui temi della salute.
Spiazzante l'attacco di Mechanic, ma francamente non nuovo, non originale. Il paradosso della salute in USA (uno dei tanti paradossi, verrebbe da dire) è riconosciuto in ambito accademico, meno sul piano culturale e politico. Ricordare che oltretutto la spesa sanitaria è il doppio di quella italiana (16% del PIL contro l'8%), verrebbe di certo inteso come un maligno artificio anti-americano.
Eppure la crudeltà dei numeri è questa. In Italia si spende meno e si cura di più: quanto meno si curano tutti, quasi tutti, i cittadini.
Perché l'altro elemento che fa scandalo è l'enorme fascia di popolazione esclusa dalle cure sanitarie. 46 milioni di persone, il 18% della popolazione, non possiede un'assicurazione (magari perché l'azienda in cui lavora è di ridotte dimensioni oppure vive un momento di difficoltà economiche). Che cosa resta a questi milioni di americani? Le cure essenziali comunque garantite... eppure, eppure la ricerca ci dice non solo che la qualità delle cure ricevute è bassa, ma che ricevono solo i 2/3 delle cure dovute (lo ricordava sempre Mechanic).
Le cause, secondo Mechanic sono da ricercare nell'etica capitalistica (né più né meno): nel fatto che essa influenzi anche il mercato della salute. Cioè l'attuale situazione è dovuta al fatto che sono stati gli economisti a riformare il sistema sanitario. E il mercato sanitario è un mercato sui generis, in cui non vale il principio del consumatore razionale, se mai vale in qualche contesto (ma questo lo aggiungo io).
Non si può poi dimenticare il ruolo dell'industria farmaceutica, i margini di profitto della quale superano di gran lunga qualsiasi altra azienda in USA. Le multinazionali del farmaco spendono una quota molto superiore in marketing piuttosto che in ricerca. Spendono tantissimo in pubblicità e per i propri rappresentanti (gli informatori medico-scientifici).
Dal punto di vista del sociologo quindi sorgono legittimi dubbi sulla natura delle ricerche che esse finanziano o sugli studi che fanno pubblicare. Per es. non vengono mai eseguiti studi post-market (dopo la diffusione di un farmaco): per questo i danni alla salute si conoscono solo nel tempo, quando le persone hanno assunto per lunghi periodi di tempo un farmaco.
A questo proposito bisognerebbe ricordare il mai abbastanza citato Robert K. Merton, che legava i concetti di democrazia e libertà della ricerca.
Le conseguenze sociali in senso più largo? Il crollo della fiducia nella classe medica (dal 1966 al 2002 dal 73% al 33%), come i politici, i magistrati, l'esercito, le università.
L'esito paradossale? Oggi molti sono insoddisfatti del sistema sanitario, vorrebbero cambiarlo, ma sono come paralizzati: continua infatti l'enorme pressione delle lobby che desiderano che tutto rimanga così. E di fronte all'ignoto, dopo il fallimento del tentativo di riforma Clinton (aggiungo io), si preferisce lasciare tutto com'è, per timore che le cose peggiorino ancora.
Una riflessione finale: Massachusetts e California stanno cercando di fare riforme per avere sistemi sanitari universalistici. Vedremo: già il governatore Schwarzenegger ci ha stupito facendo una cosa molto anti-americana: in contrasto con il presidente George W. Bush, ha applicato il Protocollo di Kyoto allo Stato più ricco della Confederazione.
Oggi la situazione della salute conferma però una delle tendenze più rilevanti della moderna globalizzazione: quella della polarizzazione, tra gli Stati e dentro gli Stati (come ci ricorda Saskia Sassen).
E' stato più o meno questo l'attacco del prof. David Mechanic, sociologo americano della Rutgers State University of New Jersey. L'occasione era l'apertura del convegno "Scienze Sociali e salute nel XXI secolo: nuove tendenze, vecchi dilemmi?" (Forlì dal 19 - 21 aprile), in occasione del V anniversario della rivista "Salute e società", uno dei luoghi privilegiati della riflessione sociologica sui temi della salute.
Spiazzante l'attacco di Mechanic, ma francamente non nuovo, non originale. Il paradosso della salute in USA (uno dei tanti paradossi, verrebbe da dire) è riconosciuto in ambito accademico, meno sul piano culturale e politico. Ricordare che oltretutto la spesa sanitaria è il doppio di quella italiana (16% del PIL contro l'8%), verrebbe di certo inteso come un maligno artificio anti-americano.
Eppure la crudeltà dei numeri è questa. In Italia si spende meno e si cura di più: quanto meno si curano tutti, quasi tutti, i cittadini.
Perché l'altro elemento che fa scandalo è l'enorme fascia di popolazione esclusa dalle cure sanitarie. 46 milioni di persone, il 18% della popolazione, non possiede un'assicurazione (magari perché l'azienda in cui lavora è di ridotte dimensioni oppure vive un momento di difficoltà economiche). Che cosa resta a questi milioni di americani? Le cure essenziali comunque garantite... eppure, eppure la ricerca ci dice non solo che la qualità delle cure ricevute è bassa, ma che ricevono solo i 2/3 delle cure dovute (lo ricordava sempre Mechanic).
Le cause, secondo Mechanic sono da ricercare nell'etica capitalistica (né più né meno): nel fatto che essa influenzi anche il mercato della salute. Cioè l'attuale situazione è dovuta al fatto che sono stati gli economisti a riformare il sistema sanitario. E il mercato sanitario è un mercato sui generis, in cui non vale il principio del consumatore razionale, se mai vale in qualche contesto (ma questo lo aggiungo io).
Non si può poi dimenticare il ruolo dell'industria farmaceutica, i margini di profitto della quale superano di gran lunga qualsiasi altra azienda in USA. Le multinazionali del farmaco spendono una quota molto superiore in marketing piuttosto che in ricerca. Spendono tantissimo in pubblicità e per i propri rappresentanti (gli informatori medico-scientifici).
Dal punto di vista del sociologo quindi sorgono legittimi dubbi sulla natura delle ricerche che esse finanziano o sugli studi che fanno pubblicare. Per es. non vengono mai eseguiti studi post-market (dopo la diffusione di un farmaco): per questo i danni alla salute si conoscono solo nel tempo, quando le persone hanno assunto per lunghi periodi di tempo un farmaco.
A questo proposito bisognerebbe ricordare il mai abbastanza citato Robert K. Merton, che legava i concetti di democrazia e libertà della ricerca.
Le conseguenze sociali in senso più largo? Il crollo della fiducia nella classe medica (dal 1966 al 2002 dal 73% al 33%), come i politici, i magistrati, l'esercito, le università.
L'esito paradossale? Oggi molti sono insoddisfatti del sistema sanitario, vorrebbero cambiarlo, ma sono come paralizzati: continua infatti l'enorme pressione delle lobby che desiderano che tutto rimanga così. E di fronte all'ignoto, dopo il fallimento del tentativo di riforma Clinton (aggiungo io), si preferisce lasciare tutto com'è, per timore che le cose peggiorino ancora.
Una riflessione finale: Massachusetts e California stanno cercando di fare riforme per avere sistemi sanitari universalistici. Vedremo: già il governatore Schwarzenegger ci ha stupito facendo una cosa molto anti-americana: in contrasto con il presidente George W. Bush, ha applicato il Protocollo di Kyoto allo Stato più ricco della Confederazione.
Oggi la situazione della salute conferma però una delle tendenze più rilevanti della moderna globalizzazione: quella della polarizzazione, tra gli Stati e dentro gli Stati (come ci ricorda Saskia Sassen).
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