Le interviste in profondità, notano Diana e Montesperelli (1), incontrano un crescente successo per tre ordini di ragioni. Cominciamo con le prime due: mirano, weberianamente, alla comprensione degli individui; consentono un'interazione empatica con l'intervistato.
La terza porta con sé un rischio: si ricorre alle tecniche non standard perché più rapide e aperte alla fantasia del ricercatore, e perché permettono di eliminare questionari, campionamento probabilistico, analisi statistiche.
Se si facesse un'inchiesta tra i dottorandi e i giovani ricercatori, forse si scoprirebbe un largo impiego delle tecniche non standard, e in particolare dell'intervista in profondità. La ricerca 'solitaria' non permette, d'altronde, consistenti piani di campionamento e raccolta dati. Ma il non standard non deve diventare una scelta negativa, una rinuncia di fronte all'impossibilità di titaniche imprese quantitative. Per non alimentare le ragioni di chi nel non standard vede un impressionismo sociologico, è fondamentale pensarlo come uno strumento nella 'cassetta degli attrezzi' del ricercatore. A volte infinitamente più utile di una survey. Altre volte no. E, soprattutto, imparare a utilizzare le tecniche non standard in tutta la loro complessità e ricchezza. Le occasioni di formazione non mancano; segnaliamo, a fine maggio, le Giornate non standard di Brescia e, nell'ambito della Scuola estiva sul metodo e la ricerca sociale (Terravecchia, fine agosto-inizio settembre), l'intervento di Montesperelli "Come trarre da un’intervista ermeneutica dati per una matrice".
(1) Paolo Diana, Paolo Montesperelli, Analizzare le interviste ermeneutiche, Roma, Carocci, 2005.
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