martedì 24 aprile 2007

B come Bové. E come Bourdieu


Elezioni presidenziali francesi. Nella sfida Royal-Sarkozy, resa più avvincente dal terzo incomodo Bayrou e dall'inossidabile Le Pen, un piccolo esercito di candidati minori si contende una quota non marginale di voti. Così, al primo turno, tra lo 0.3% di Schivardi e il 4.1 di Besancenot, spiccano i baffoni di José Bové, candidato del sindacato Confederazione Contadina.

Bové, Bové... dove ho già sentito questo nome? Me lo ricorda l'antropologa Deborah Reed-Danahay in Relocating Bourdieu (Indiana Univ. Press, 2005): "Bourdieu supported the controversial pesant-hero José Bové, who led French farmers to attack a McDonald's Restaurant" (p. 163-4). Già, un assalto con tanto di trattore, nel 1999.

Ecco dunque che al documentario "La sociologie est un sport de combat" si aggiunge un'altra occasione per conoscere Bourdieu tramite video : Bourdieu parla di Bové. Se Bourdieu definisce il fenomeno Bové come "un miracolo", Bové replica descrivendo il sociologo come un uomo che "à travers sa réflexion, ses ouvrages, il a mis en lumière la réalité de la société, et comme c’était un homme engagé, cette réalité lui était insupportable ", ce qui l’a " amené à prendre position et à être dans le débat. En ce sens, c’est une figure très importante du XXe siècle " (puoi approfondire qui).

giovedì 19 aprile 2007

Cacciatori di tendenze

Il ruolo dei coolhunter nel circuito produzione-consumo*

Il termine coolhunting nasce negli anni ’90 per identificare l’attività di ricerca di tendenze all’interno dei mondi del consumo giovanile. La «caccia di tendenze» viene nobilitata come attività professionale da un articolo di Gladwell su The New Yorker, mentre è con No Logo di Naomi Klein che il coolhunting diventa una tema familiare ad un più vasto pubblico.
Il coolhunter svolge un lavoro di ricerca (anzi, letteralmente di «caccia») di ciò che è considerato cool nelle subculture giovanili, attraverso l’osservazione dei trend che si sviluppano nella fascia d’età compresa tra i 12 e 24 anni. Le aree di osservazione spaziano dall’abbigliamento alla musica ai prodotti tecnologici, coinvolgendo tutte le manifestazioni della pop culture, in particolar modo quelle legate agli stili di strada. Una visione romantica e stereotipata vuole che il coolhunter sia un giovane, necessariamente cool, che percorre con taccuino e fotocamera digitale le città e i luoghi frequentati dalle subculture, traendone una sorta di materiale etnografico sulla base del quale pubblicitari e responsabili di marketing possano ridisegnare l’offerta e la comunicazione dei propri prodotti.
Il coolhunting è in realtà un fenomeno tutt’altro che trascurabile, e si presta a differenti chiavi di lettura. Se, nella prospettiva delle strategie aziendali, esso rappresenta la nuova frontiera di un marketing che cerca di anticipare il consumatore piuttosto che seguirlo, da un punto di vista culturale è uno dei sintomi più evidenti della commercializzazione della cultura giovanile.
La sostituzione dell’età alla classe come variabile che dà prestigio all’innovatore di moda ha rovesciato il classico modello trickle-down di diffusione della moda nel suo opposto, ovvero un modello trickle-up in cui è la strada a dettare gli stili. Ecco allora che il coolhunter, incaricato di scovare le tendenze che si annidano lontano dalle passerelle, si trova a svolgere un ruolo cruciale nel circuito produzione-consumo. Il suo lavoro di scoperta delle tendenze alla fonte permette alle aziende di influenzare il loro movimento, e contemporaneamente determina un’accelerazione senza precedenti di tempi di ideazione e produzione, nonché dei cicli della moda.
Il coolhunting costituisce un interessante modello della diffusione di innovazioni, cui è possibile applicare il paradigma in 5 stadi formulato nell’ambito degli studi rurali di Ryan e Gross: lo stile cool è adottato da pochi «innovatori», i quali contagiano un ristretto gruppo di «adottatori precoci»; da qui la tendenza si diffonde prima ad una «maggioranza precoce» e poi ad una «maggioranza tardiva» di consumatori, finché si rompono anche le resistenze dei «tradizionali». Le aziende di moda possono intervenire nel ciclo della tendenza accelerando i passaggi e la velocità del contagio, delegando ai coolhunter il compito di osservare l’evolversi degli stili degli «innovatori».Infine, il mestiere del coolhunter può essere interpretato alla luce della teoria della violenza simbolica, espressione utilizzata da Bourdieu per indicare una forma di violenza dolce, quasi invisibile, che si esercita attraverso le forme puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza. Se anche è vero che il cool non può essere prodotto, ma solo osservato (come sostiene Gladwell), è ancor più vero che l’intervento della macchina del marketing si appropria dello stile emergente, «bruciandone» l’autenticità in brevissimo tempo. Mediante la violenza simbolica alcuni significati si impongono come legittimi, dissimulando le relazioni di forza di cui in realtà sono espressione. Il mito della moda nata dalla strada nasconde così un duplice rapporto non paritario: da una parte quello tra produttori (che si appropriano delle tendenze attraverso i coolhunter) e subculture espropriate del proprio stile; dall’altra quello tra produttori e consumatori (che offrono la propria spontanea adesione all’immagine di coolness creata e venduta dalle aziende).
* Il paper è stato presentato al Convegno Internazionale "Moda e stratificazione sociale" (Milano, Università Cattolica, 11 maggio 2007) nella sessione cool.

martedì 3 aprile 2007

Etnografia del consenso (dis)informato

La natura del rapporto tra medico e paziente continua a conservare una dimensione magica fondata sull’inevitabile disparità di conoscenza tra i due soggetti. Da una parte abbiamo il dottore-guaritore, depositario di un sapere medico che gli permette di prendere decisioni sul «rimedio» più indicato; dall’altra, il paziente, in buona misura privo di strumenti per capire se la «magia» che gli sta per essere applicata è quella giusta o meno. In una qualsiasi operazione, anche ambulatoriale, ad unire questi due poli della relazione magica compare il cosiddetto consenso informato, un foglio che il paziente firma per dichiarare la sua completa conoscenza della natura dell’intervento cui sta per essere sottoposto, con i relativi rischi.
Ma questo consenso è davvero informato? Credo sarebbe interessante trasformare questa domanda in un piano di ricerca più articolato che vada a verificare quanto i pazienti sanno rispetto all’operazione che li aspetta, da dove hanno appreso le informazioni, in che modo hanno discusso col medico dei rischi legati all’intervento. Curiosità che ho maturato nel corso di una (involontaria) osservazione dissimulata in un gruppo di persone sottoposte ad un intervento di «cheratectomia laser ad eccimeri», ovvero l’ormai routinaria operazione di correzione della miopia attraverso il laser.

Il giorno dell’intervento, gli operandi vengono convocati tutti alla stessa ora in un ospedale pubblico specializzato in questo tipo di operazione oculistica. L’ordine d’arrivo determina l’ordine degli interventi. Tra l’ora di convocazione e l’arrivo dello specialista passano due ore, uno spazio di «attesa magica» del guaritore. Tempo parzialmente speso con una giovane dottoressa-apprendista in visite preliminari, «riti di preparazione» con l’obiettivo di valutare la stabilità della miopia rispetto all’ultima visita ed eventuali fattori di rischio che possano sconsigliare l’esecuzione del trattamento laser. Ma nelle due ore si consuma anche il «rito del consenso informato». Un’infermiera distribuisce fotocopie sbiadite al limite dell’illeggibilità; gli 8 operandi devono compilarlo e firmarlo in duplice copia, una per il medico e una per il paziente. Ne nasce una situazione curiosa: solo un paio di operandi sembrano dedicare qualche minuto alla lettura del foglio, e addirittura una di essi (donna, sulla cinquantina) rimbrotta un ragazzo (sulla ventina) che esita a firmare e si prolunga nella lettura. «Guarda che tanto lo devi firmare comunque, se no il dottore non ti opera».
Ma cosa stanno firmando questi operandi? Estrapolo dal documento: «Io sottoscritto… in pieno possesso delle mie facoltà mentali, acconsento a sottopormi all’intervento di chirurgia rifrattiva mediante laser ad eccimeri, dopo essere stato edotto delle caratteristiche dell’intervento ed aver attentamente valutato, in conformità a quanto ampiamente illustrato e riassunto in uno specifico memorandum da me sottoscritto per presa visione (ed allegato al presente consenso informato), i possibili vantaggi così come gli eventuali rischi generici e specifici dell’intervento stesso». Segue dichiarazione di essere a conoscenza di un elenco di possibili rischi. E si continua: «Dichiaro che mi è stata data la possibilità di porre domande riguardo alle problematiche relative a quest’intervento, ricevendo dal medico risposte precise, chiare ed esaurienti». Eccetera eccetera.
Tento una verifica conversando con il giovane operando. Al consenso informato non è allegato nessun memorandum, che quindi non può essere visionato e tanto meno sottoscritto. Quali rischi conosce? Nessuno, in realtà: il medico gli ha detto che ormai è un’operazione di routine. Tutt’al più, un po’ di fastidio nei giorni seguenti. Ma il ragazzo non ha chiesto qualcosa di più? Sì, ha chiesto vantaggi e rischi dell’operazione; il medico gli ha mostrato il modellino in plastica di un occhio, ha spiegato che il laser brucia quello strato di tessuto oculare che impedisce la corretta messa a fuoco; non si è sentito di chiedere di più, aveva l’impressione di essere un malfidente che non crede nell’abilità (il «potere magico») dello specialista. Ma allora come ha deciso di affrontare un’operazione che molti sconsigliano? Racconti di amici che l’hanno fatta e si sono trovati bene; racconti di persone conosciute nella sala d’aspetto dello studio oculistico dove l’operando è stato visitato un paio di volte; racconti che proseguono davanti all’ambulatorio, mentre il medico si fa attendere. Qualcuno si opera per la seconda volta: una «correzione». L’operando non sapeva dell’eventualità che l’intervento non corregga completamente la miopia. Qualcuno dice che dopo l’operazione, in ogni caso, non si possono portare più le lenti a contatto. Sarà vero? Il ragazzo non lo sa.
Non vado oltre, l’elenco sarebbe lungo. L’impressione è che la maggior parte delle informazioni venga raccolta in modo informale da altri operati o operandi con cui ci si trova a condividere gli spazi di una sala d’attesa o di un ambulatorio. Ma il bello deve ancora venire: quando l’oculista arriva, un’operanda (donna, sui 40 anni) viene privatamente convocata nella sala dove si svolgerà l’intervento. La porta chiusa non basta a mantenere la privacy sulla discussione, che poi prosegue all’esterno della sala. La donna ha uno spessore della cornea che non la mette sufficientemente al riparo dai rischi dell’operazione. «Si può operare o meno, con qualche lieve rischio. Veda lei, signora». (Il verbo vedere, in questo contesto, è quanto mai ironico). La donna, il cui livello di informazione sarà verosimilmente uguale a quello degli altri operandi, viene messa nella condizione di dover decidere su una questione di cui non sa molto. Accetterà di sottoporsi alla magia?