Il terremoto che ha devastato la Cina è stato potentissimo. Ad oggi il bilancio dei morti supera le 70.000 persone. Se non fossero cinesi, sarebbe una notizia sconvolgente ma, si sa, con loro si tende a ignorare i grandi numeri.
Il Sichuan regione importante storicamente e politicamente è devastato (è questa la terra della brechtiana "anima buona"?). Nel Sichuan vengono mandati a rieducarsi i giovani di città durante la Rivoluzione Culturale e la durezza della vita di campagna di allora non deve essere molto diversa da quella di oggi (una bella lettura in proposito potrebbe essere Cigni Selvatici. Tre figlie della Cina, di Chang Jung).
Tra le molte immagini che giungono in Occidente alcune colpiscono più di altre e sono quelle della disperazione gridata, urlata, sono i capelli strappati, le lacrime asciutte del pianto dei sopravvissuti.
Della Cina e dell'Oriente ci siamo fatti un'immagine di serena rassegnazione o comunque dell'incapacità di mostrare sentimenti in pubblico: il famoso sorriso imbarazzato che colpisce soprattutto noi mediterranei. Quando si salutano infatti non si toccano, ma rispettosamente chinano il capo. Noi ci stringiamo le mani o peggio ci baciamo sulle guance.
Invece in questi giorni, il circo mediatico globale ci mostra il dolore, pubblico ed evidente.
La Cina ieri si è fermata per alcuni minuti per commemorare le vittime. Le cronache dicono di un miliardo e mezzo di persone ferme, in silenzio, tutte insieme.
Si dice anche che si tratta di un unicum, almeno nella storia recente: le autorità non nascondono la catastrofe ma la mostrano al mondo e la condividono.
Oggi forse davvero la Cina è più vicina: noi, spettatori globali, ci aspettavamo le urla e i pianti e li abbiamo avuti.
Anche loro sono un po' più come noi, se questo è un bene. Di certo, sa di omologazione (ma forse dipende dalla nostra misconoscenza della ieraticità asiatica).
Uguali a noi, che del dolore e della sua rappresentazione mediatica abbiamo fatto una bandiera: si va ai funerali di casi di cronaca o di personaggi famosi a piangere e battere le mani; si fanno i minuti di silenzio allo stadio (battendo le mani); per non parlare di teledolore, la tv del dolore.
Siamo noi allora i globalizzatori, gli esportatori di stili di vita.
Intanto mandiamo un pensiero alle vittime cinesi, nel centenario infausto del terremoto di Messina.
E pensiamo anche al "potenziale politico delle catastrofi", di cui parla Ulrich Beck: forse anche il terremoto cinese potrebbe essere davvero l'occasione per un mutamento profondo del paese più importante del mondo. Come lo fu Bhopal in India o Chernobyl in URSS.
martedì 20 maggio 2008
La Cina ora è più vicina?
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