Si è appena conclusa l'edizione 2008 delle Giornate Non Standard, scuola di alta formazione in metodologia della ricerca sociale.
E' stata un'edizione speciale, vera ricerca "in the field", pantaloni sporchi di polvere, creatività al potere, scambio, confronto, anche scontro.
Insomma un momento di formazione vera. Quest'anno merita qualche riflessione in più, che ci sarà, ma più avanti.
Intanto una prima riflessione: si è parlato di osservazione, osservazione partecipante ed etnografia. Al di là delle etichette, dopo aver sentito maestri (Antonio De Lillo, Ugo Fabietti, Guido Giarelli) ed esperti (Asher Colombo, Charlie Barnao, Erika Cellini) che hanno presentato le proprie ricerche (in genere in situazioni nascoste, ambigue, pericolose), gli allievi sono stati buttati in acqua. O si nuota o si affoga: "l'etnografia non è per tutti", lo diceva anche Fabietti e "non è adatta a tutte le età", chiosava Daniele Nigris. "Non è un pranzo di gala", aggiungo io, con un vezzo: non ci si può andare con i mocassini (come il sottoscritto).
Eppure non siamo affogati, abbiamo visto e poi guardato ancora meglio, abbiamo discusso e cercato di capire che cosa avevamo visto. E alla fine il quadro era più ampio (allargamento degli orizzonti cognitivi), più complesso (differenziazione), meno semplicistico (il dentro determina e riorienta il fuori e viceversa).
Quando mi è capitato di portare questionari (lo strumento standard per eccellenza) nelle scuole, mi sono guardato intorno e forse ho capito molte cose che non potevano essere raccolte nel questionario (anche se il questionario chiedeva di annotarle).
Le note di campo dell'antropologo o dell'etnografo, invece, sono parte essenziale del processo di analisi.
Le note per ora le porto ancora confusamente con me. Ma presto cercherò di condividerle.
PS: un grazie speciale ai nuovi eroi metropolitani, agli impavidi della stazione.
venerdì 30 maggio 2008
martedì 20 maggio 2008
L'odissea dell'homo rumenicus
Ma cosa pensa un rumeno che vive in Italia?
"E' dura ...
In Italia saremo tutti fratelli e amici quando il napoletano si sentira al nord come a casa. Ma se questi non si sopportano tra loro, io cosa devo pretendere?"
Questo è un blog, purtroppo nella lingua madre, ma qualche indizio in italiano si trova. Meno male che c'è Google: traduttore rumeno-italiano!
"E' dura ...
In Italia saremo tutti fratelli e amici quando il napoletano si sentira al nord come a casa. Ma se questi non si sopportano tra loro, io cosa devo pretendere?"
Questo è un blog, purtroppo nella lingua madre, ma qualche indizio in italiano si trova. Meno male che c'è Google: traduttore rumeno-italiano!
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Conflitto sociale
Trasformare l'esperienza quotidiana
Una brevissima segnalazione, per un vero genio: un tassista di Duesseldorf, in Germania, che si è fatto il blog.
C'è tutto: i tedeschi con i baffoni, quelli che salgono sulla vettura e verso la telecamera gridano: "ciao mamma!" (come si dice in tedesco: Hallo, Mutty!?)... piccole storie di vita vissuta.
Anche senza sapere la lingua, una visita è indispensabile.
Fare il tassista non è il massimo forse (basta pensare ai tassinari romani e al loro livore politico), ma questo ricorda da vicino il casellante che per rompere la routine inventava storie e giochi matematici sulle auto che passavano dal suo posto di lavoro.
C'è ancora spazio per l'umano.
C'è tutto: i tedeschi con i baffoni, quelli che salgono sulla vettura e verso la telecamera gridano: "ciao mamma!" (come si dice in tedesco: Hallo, Mutty!?)... piccole storie di vita vissuta.
Anche senza sapere la lingua, una visita è indispensabile.
Fare il tassista non è il massimo forse (basta pensare ai tassinari romani e al loro livore politico), ma questo ricorda da vicino il casellante che per rompere la routine inventava storie e giochi matematici sulle auto che passavano dal suo posto di lavoro.
C'è ancora spazio per l'umano.
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La Cina ora è più vicina?
Il terremoto che ha devastato la Cina è stato potentissimo. Ad oggi il bilancio dei morti supera le 70.000 persone. Se non fossero cinesi, sarebbe una notizia sconvolgente ma, si sa, con loro si tende a ignorare i grandi numeri.
Il Sichuan regione importante storicamente e politicamente è devastato (è questa la terra della brechtiana "anima buona"?). Nel Sichuan vengono mandati a rieducarsi i giovani di città durante la Rivoluzione Culturale e la durezza della vita di campagna di allora non deve essere molto diversa da quella di oggi (una bella lettura in proposito potrebbe essere Cigni Selvatici. Tre figlie della Cina, di Chang Jung).
Tra le molte immagini che giungono in Occidente alcune colpiscono più di altre e sono quelle della disperazione gridata, urlata, sono i capelli strappati, le lacrime asciutte del pianto dei sopravvissuti.
Della Cina e dell'Oriente ci siamo fatti un'immagine di serena rassegnazione o comunque dell'incapacità di mostrare sentimenti in pubblico: il famoso sorriso imbarazzato che colpisce soprattutto noi mediterranei. Quando si salutano infatti non si toccano, ma rispettosamente chinano il capo. Noi ci stringiamo le mani o peggio ci baciamo sulle guance.
Invece in questi giorni, il circo mediatico globale ci mostra il dolore, pubblico ed evidente.
La Cina ieri si è fermata per alcuni minuti per commemorare le vittime. Le cronache dicono di un miliardo e mezzo di persone ferme, in silenzio, tutte insieme.
Si dice anche che si tratta di un unicum, almeno nella storia recente: le autorità non nascondono la catastrofe ma la mostrano al mondo e la condividono.
Oggi forse davvero la Cina è più vicina: noi, spettatori globali, ci aspettavamo le urla e i pianti e li abbiamo avuti.
Anche loro sono un po' più come noi, se questo è un bene. Di certo, sa di omologazione (ma forse dipende dalla nostra misconoscenza della ieraticità asiatica).
Uguali a noi, che del dolore e della sua rappresentazione mediatica abbiamo fatto una bandiera: si va ai funerali di casi di cronaca o di personaggi famosi a piangere e battere le mani; si fanno i minuti di silenzio allo stadio (battendo le mani); per non parlare di teledolore, la tv del dolore.
Siamo noi allora i globalizzatori, gli esportatori di stili di vita.
Intanto mandiamo un pensiero alle vittime cinesi, nel centenario infausto del terremoto di Messina.
E pensiamo anche al "potenziale politico delle catastrofi", di cui parla Ulrich Beck: forse anche il terremoto cinese potrebbe essere davvero l'occasione per un mutamento profondo del paese più importante del mondo. Come lo fu Bhopal in India o Chernobyl in URSS.
Il Sichuan regione importante storicamente e politicamente è devastato (è questa la terra della brechtiana "anima buona"?). Nel Sichuan vengono mandati a rieducarsi i giovani di città durante la Rivoluzione Culturale e la durezza della vita di campagna di allora non deve essere molto diversa da quella di oggi (una bella lettura in proposito potrebbe essere Cigni Selvatici. Tre figlie della Cina, di Chang Jung).
Tra le molte immagini che giungono in Occidente alcune colpiscono più di altre e sono quelle della disperazione gridata, urlata, sono i capelli strappati, le lacrime asciutte del pianto dei sopravvissuti.
Della Cina e dell'Oriente ci siamo fatti un'immagine di serena rassegnazione o comunque dell'incapacità di mostrare sentimenti in pubblico: il famoso sorriso imbarazzato che colpisce soprattutto noi mediterranei. Quando si salutano infatti non si toccano, ma rispettosamente chinano il capo. Noi ci stringiamo le mani o peggio ci baciamo sulle guance.
Invece in questi giorni, il circo mediatico globale ci mostra il dolore, pubblico ed evidente.
La Cina ieri si è fermata per alcuni minuti per commemorare le vittime. Le cronache dicono di un miliardo e mezzo di persone ferme, in silenzio, tutte insieme.
Si dice anche che si tratta di un unicum, almeno nella storia recente: le autorità non nascondono la catastrofe ma la mostrano al mondo e la condividono.
Oggi forse davvero la Cina è più vicina: noi, spettatori globali, ci aspettavamo le urla e i pianti e li abbiamo avuti.
Anche loro sono un po' più come noi, se questo è un bene. Di certo, sa di omologazione (ma forse dipende dalla nostra misconoscenza della ieraticità asiatica).
Uguali a noi, che del dolore e della sua rappresentazione mediatica abbiamo fatto una bandiera: si va ai funerali di casi di cronaca o di personaggi famosi a piangere e battere le mani; si fanno i minuti di silenzio allo stadio (battendo le mani); per non parlare di teledolore, la tv del dolore.
Siamo noi allora i globalizzatori, gli esportatori di stili di vita.
Intanto mandiamo un pensiero alle vittime cinesi, nel centenario infausto del terremoto di Messina.
E pensiamo anche al "potenziale politico delle catastrofi", di cui parla Ulrich Beck: forse anche il terremoto cinese potrebbe essere davvero l'occasione per un mutamento profondo del paese più importante del mondo. Come lo fu Bhopal in India o Chernobyl in URSS.
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