martedì 29 gennaio 2008
Il mastellismo come volontà e rappresentazione
Volontà di essere costantemente l'ago della bilancia, rappresentazione dell'italica abitudine ad erigere barricate facendo pesare il proprio distinguo minoritario contro l'interesse pubblico. Incarnazione autoproclamatasi di un bene pubblico invocato come veste per il proprio smisurato ego o interessi campanilistici nemmeno troppo celati, quelli che oggi si chiamano diniani e mastelliani, ma che ieri hanno avuto e domani avranno altri nomi, si concedono il lusso di far cadere un governo non su temi nobili dell'agenda politica, ma sfruttando una situazione di empasse politico-giudiziaria cui il paese, tutto sommato, guarda con noia e disinteresse.
Così i nostrani mastellismi si prendono la responsabilità di perpetuare instabilità, con tutti gli effetti che ciò può avere sui micromondi vitali dell'economia, della cultura, della società. Ognuno guarda al suo orticello, e se noi dovessimo guardare al nostro - il panorama della ricerca universitaria e dei dottorandi - dovremmo lamentarci per quell'aumento delle borse di studio previsto in finanziaria e in attesa di un decreto attuativo - che, in assenza di un esecutivo, non verrà, o verrà più tardi. I dottorandi borsisti attendevano che l'assegno passasse dagli attuali 820 euro mensili a circa 1.000. Un aumento intorno ai 2.000 euro annuali che, pur mantenendo l'Italia dietro agli altri paesi europei, avrebbe segnato un passo importante nella ridefinizione di ruolo dei giovani ricercatori. Perché la ricerca universitaria si apra a coloro che sono capaci, e non ponga barriere all'ingresso per chi non si può permettere il lusso di campare con assegni da fame, andando ad ingrossare le fila dei "bamboccioni" di Padoa-Schioppa inchiodati nella casa paterna. Oppure, come più spesso avviene, costringendo i dottorandi ad una quantità di altre occupazioni parallele per "arrotondare".
Ma usciamo dal nostro orticello. Il micromondo universitario è solo una delle tante spie di quel che sta dietro l'instabilità di governo: qualcuno va, qualcun altro arriva, i processi si interrompono a metà, subiscono rallentamenti, nel peggiore dei casi stop definitivi. Sarebbe interessante raccogliere piccole storie delle conseguenze dell'instabilità dei vari orticelli: cosa succede in un ospedale quando cade un governo? cosa in un'aula giudiziaria? cosa nel commercio al dettaglio? cosa in una famiglia? Quante piccole ma fondamentali attese, appese a iter legislativi che d'improvviso si bloccano, si infrangono nel mastellismo?
Non può meravigliarci più di tanto il senso di disaffezione a una politica che tanto somiglia al Risiko: una dimensione parallela e irreale dove i giocatori invadono e si ritirano, lanciano dadi e pescano carte, come se quello che fanno avesse conseguenze solo sul tabellone e non, invece, sul mondo che comincia fuori dal tavolo.
lunedì 28 gennaio 2008
La moschea che non c'è
La nuova "battaglia di Magenta" e i conflitti con le comunità islamiche in Lombardia
Il recente caso (autunno 2007) dell’omicidio di Giovanna Reggiani alla stazione romana di Tor di Quinto ad opera di un rumeno dimostra come scelte rilevanti in tema di governo delle migrazioni sono prese più sotto la pressione dell’opinione pubblica e dei resoconti giornalistici che come esito di riflessioni e valutazioni ponderate. Al di là della sua legittimità, il decreto espulsioni varato dal governo dopo questo episodio è parso a molti una scelta frettolosa ed emotiva. Questo evento riporta ancora una votla alla luce la riflessione secondo cui le politiche relative alla migrazione siano nel nostro paese frutto di reazione e adattamento, più che esito di processi attivi.
In tema di immigrazione la rappresentazione mediatica ha un ruolo chiave nella costruzione dell’immagine dell’Altro, dell’immigrato, dell’extracomunitario. Il caso che vogliamo presentare è quello dell’immigrazione musulmana in Lombardia, con particolare riferimento alla vicenda della moschea di Magenta, episodio “ordinario” che non ha guadagnato l’attenzione delle cronache nazionali.
In Lombardia gli scontri scatenati dalla presenza di moschee sono particolarmente frequenti e violenti. La nostra regione ospita il maggior numero di immigrati musulmani e centri culturali islamici del paese, ed è stata teatro di alcuni tra gli episodi più “mediatizzati” di questo scontro: viale Jenner, via Padova, via Quaranta, solo per restare a Milano; la profanazione del suolo destinato ad una moschea a Lodi, che il leghista Calderoli poi brevetta con il nome di “Maiale-day”; la chiusura della moschea di Gallarate; la contestata concessione della sala consiliare di Oggiono (Lecco) a un gruppo di musulmani per il ramadan (dopo la polemica, i musulmani restituiscono le chiavi al sindaco); gli attentati a colpi di bottiglie questa estate nella vicina Abbiategrasso.
Fin qui casi noti. Ma cosa accade quando il conflitto non supera i confini dell’attenzione territoriale? Abbiamo analizzato il caso di Magenta, cittdina di 23mila ab. dell’Ovest Milano, gli attori coinvolti, la rappresentazione del conflitto da parte dei media locali.
Descriviamo brevemente il caso: nel luglio 2006 l’associazione culturale Yaquta, espressione della comunità pakistana del magentino, affitta un capannone in una zona non centrale di Magenta. Il contratto stabilisce che «il proprietario autorizza il conduttore ad effettuare una attività di centro culturale e di oratorio». Il tentativo di ottenere un luogo di ritrovo era già fallito in comuni limitrofi. Il 7 settembre il settimanale locale «Città Oggi», distribuito gratuitamente casa per casa, si chiede: «Sta nascendo una moschea in città nel quartiere nord?». L’allarme è lanciato e, attraverso il resoconto approssimato dei settimanali locali, darà luogo a fantasiose descrizioni di una moschea frequentata da 3-400 pakistani rumorosi e maleducati. L’amministrazione comunale di centro-destra si schiera contro l’insediamento islamico e invia 23 multe identiche (successivamente annullate dal Tribunale di Rho) contestando violazioni edilizie e problemi igienico-sanitari; nella primavera arriva lo sfratto da parte del proprietario dello stabile. A prendere le difese dei pakistani è il Comitato di solidarietà con i migranti, legato agli ambienti politici di centro-sinistra del magentino. Inevitabile la politicizzazione dello scontro. Il Comitato offre assistenza legale a Yaquta e organizza iniziative volte alla conoscenza reciproca (ad esempio la «cena lumbard-pakistana»); sul piano comunicativo, si scontra violentemente con l’amministrazione e la Lega Nord, duellando sui giornali locali a colpi di comunicati stampa.
Questi ultimi, se analizzati, rivelano due opposte retoriche: quella del «noi contro loro» della Lega, che insiste sulla difesa dei nostri territori e dei nostri valori contro gli irrispettosi extracomunitari; e quella del «noi come loro» che esprime, nel Comitato, una duplice identificazione: come loro, noi siamo lavoratori; come loro, noi siamo (o meglio: siamo stati) migranti. Lo scontro è particolarmente forte durante la campagna elettorale che, nella primavera 2007, vede trionfare l’uscente giunta di centro-destra con quasi il 70% dei consensi.
L’attenzione dei media locali si placa, ma il caso si chiude prevedibilmente con la sconfitta dei pakistani, che perdono il ricorso contro lo sfratto.
Perché un capannone frequentato da 40 pakistani riesce a creare tutto questo clamore?
L'insediamento di comunità di immigrati musulmani genera sempre più spesso conflitti con le popolazioni locali, soprattutto quando si traduce in una richiesta di spazi. Quelle che vengono impropriamente chiamate “moschee”, e che in realtà sono più spesso dei centri culturali islamici, rappresentano il segno della visibilizzazione dell'islam sul territorio, come sottolinea Renzo Guolo, e attivano spesso la miccia del conflitto tra “comunità locali” e immigrati. Le moschee sono il segno anche di un passaggio dall'immigrazione economica (prevalentemente) all'immigrazione di popolamento (detto altrimenti: il musulmano da attore economico, venuto in Italia senza la famiglia e per lavorare, diventa presenza stabile e attore religioso, come ci ricorda Stefano Allievi).
Il filtro creato dai media nazionali opera fortemente anche sulle vicende locali. L’immagine del musulmano post 9/11 è talmente forte e radicata che agisce da sostrato sul quale si innestano giudizi e pregiudizi legati al caso in questione, senza che tuttavia si produca un vero e proprio dibattito sulla vicenda in oggetto: ad alimentare la polemica è un’immagine astratta del musulmano quale l’abbiamo costruita negli ultimi anni grazie a (o a causa di) eventi terroristici, interventi dal pulpito del Fallacismo o dell’anti-Fallacismo, kamikaze palestinesi, proclami di Bin Laden e suoi luogotenenti. Prima di valutare se i pakistani di Magenta stanno violando o meno la legge italiana, se hanno diritto o meno di riunirsi in preghiera, ognuno di noi ha già costruito dentro di sé un “musulmano immaginato” lontano anni luce da quello reale che vive nel nostro quartiere. Su questa prima, potente costruzione sociale se ne innesta una seconda, quella che emerge dalle fonte di informazione locale e dai protagonisti della nuova “battaglia di Magenta”.
Nella costruzione sociale di questo immigrato pakistano la conoscenza diretta ha un peso quasi irrilevante. Durante la nostra osservazione sul campo qualcuno ci ha raccontato di questi uomini con «barba, pigiamino e cappellino» che ogni tanto si vedono alle poste, in giro per la città.
Mentre la mappa del territorio lombardo si va riempiendo di «casi moschea», l’indagine empirica della vicenda di Magenta è stata per noi un’occasione di riflessione sul ruolo dei media, anche quando si tratta di giornali locali a limitata diffusione. Le fonti di informazione operano come grancassa del timore della popolazione, esaltando le voci stereotipate e relegando nell'oblio le posizioni dialoganti. Questo è il campo di un conflitto in cui la “posta in gioco” è la codificazione (Weber), la rappresentazione (Bourdieu): cioè i criteri di denominazione, rappresentazione e percezione: la componente «non massimalista» del Comitato non è rappresentata, così come la Chiesa; dei pakistani si parla senza che nessuno si prenda la briga di sentire il loro parere o fare una seria inchiesta su quel che avviene nella moschea; nei giornali prende corpo una presunta «voce del quartiere» che si leva contro i pakistani (ma alcune verifiche dirette da parte nostra ci hanno mostrato che alcuni residenti nella via della moschea non sapevano nemmeno della sua esistenza).
Come fare a non cadere in trappola? L’analisi della rappresentazione mediatica necessita di un lavoro di osservazione sul campo, l’unico che può far emergere sovra o sotto-rappresentazioni. La rappresentazione stessa della vicenda come un «campo» di conflitto, con relazioni di esplicita o tacita belligeranza o accordo, può essere uno strumento per raccontare i processi di semplificazione, mistificazione e distorsione di questo scontro, anche a chi non ha la pazienza (come voi) di ascoltare la noiosa ricostruzione dell’intera vicenda. Per decostruire, insomma, una rappresentazione monolitica che, come scrive Allievi, fa comodo «al giornalista, a cui consente di scrivere qualsiasi generalizzazione senza bisogno di verifica», così come «al politico, che su questi temi e su questo modo di affrontarli specula e costruisce le proprie rendite di posizione»; e, infine, «al destinatario del processo di comunicazione, che vede così confermati i propri pre-giudizi, e toglie la fatica di pensare in proprio».
La semplificazione, il demone della semplicità per dirla con Bergson, è il grande protagonista della rappresentazione del diverso: strumento potente che ci permette di ridurre la complessità, ormai difficilmente rappresentabile e quindi pensabile, di un reale, sempre più sconvolto da catastrofi ambientali, economiche, sociali.
In conclusione, ci chiediamo se questo tipo di analisi – un’analisi del campo del conflitto attraverso la sua rappresentazione mediatica, bilanciata con l’osservazione partecipante e interviste a testimoni privilegiati – possa avere una qualche utilità che vada oltre il semplice intento documentale.
Ciò che questa analisi mette in luce è che gli attori in campo competono per poste in gioco molto diverse: per i pakistani il diritto di riunione, di preghiera, ma anche la richiesta di visibilità sociale; per gli attori politici il mantenimento della propria posizione ai fini di un rafforzamento elettorale (Lega). Ma ciò che è in gioco è soprattutto la possibilità e la capacità di nominare, codificare, rappresentare: chiamare moschea un centro culturale islamico, creare panico nella città a dispetto dell’assenza di una minaccia reale, trasformare in una guerra di religione e in uno scontro tra culture quello che è una lotta politica tra schieramenti con opposte concezione del ruolo dell’accoglienza.
Fin qui siamo ancora su un piano accademico. Spostandoci, forse con troppa ambizione, sul piano della gestione del rapporto con l’immigrato, ci sembra che un’analisi di campo possa essere utile a verificare come agiscono gli strumenti istituzionali nei confronti degli immigrati. A livello legislativo, il caso Magenta pone dei dubbi sull’applicazione della legge regionale 12/2005; a livello amministrativo, le 23 multe inviate ai pakistani traducono un atteggiamento di chiusura e di rifiuto da parte delle forze politiche che governano la città, e il loro annullamento da parte del tribunale di Rho ne dimostra l’illegittimità. D’altronde, il colore politico dell’amministrazione è tutt’altro che ininfluente sull’esito delle vicende che vedono al centro dell’attenzione le moschee: lo dimostra il caso di Colle Val d’Elsa, analizzato da Fabio Berti e finito al centro delle cronache nazionale grazie agli interventi di Oriana Fallaci e di Magdi Allam. A Magenta l’amministrazione di centro-destra osteggia la moschea e nasce un comitato di cittadini pro-moschea; a Colle, specularmente, l’amministrazione di centro-sinistra appoggia la costruzione di una moschea, e il comitato si costituisce contro di essa. In ogni caso l’azione amministrativa, pro o contro, segna fortemente il corso degli eventi.
La Lombardia offre alle cronache e all’occhio della sociologia molte situazioni di tensione tra comunità locali e immigrati musulmani. Quella che ci chiediamo – la nostra proposta, insomma, tutta da discutere – è se un tipo di analisi così condotta possa essere uno strumento utile per costruire e leggere una mappa dei conflitti in Lombardia.
Il recente caso (autunno 2007) dell’omicidio di Giovanna Reggiani alla stazione romana di Tor di Quinto ad opera di un rumeno dimostra come scelte rilevanti in tema di governo delle migrazioni sono prese più sotto la pressione dell’opinione pubblica e dei resoconti giornalistici che come esito di riflessioni e valutazioni ponderate. Al di là della sua legittimità, il decreto espulsioni varato dal governo dopo questo episodio è parso a molti una scelta frettolosa ed emotiva. Questo evento riporta ancora una votla alla luce la riflessione secondo cui le politiche relative alla migrazione siano nel nostro paese frutto di reazione e adattamento, più che esito di processi attivi.
In tema di immigrazione la rappresentazione mediatica ha un ruolo chiave nella costruzione dell’immagine dell’Altro, dell’immigrato, dell’extracomunitario. Il caso che vogliamo presentare è quello dell’immigrazione musulmana in Lombardia, con particolare riferimento alla vicenda della moschea di Magenta, episodio “ordinario” che non ha guadagnato l’attenzione delle cronache nazionali.
In Lombardia gli scontri scatenati dalla presenza di moschee sono particolarmente frequenti e violenti. La nostra regione ospita il maggior numero di immigrati musulmani e centri culturali islamici del paese, ed è stata teatro di alcuni tra gli episodi più “mediatizzati” di questo scontro: viale Jenner, via Padova, via Quaranta, solo per restare a Milano; la profanazione del suolo destinato ad una moschea a Lodi, che il leghista Calderoli poi brevetta con il nome di “Maiale-day”; la chiusura della moschea di Gallarate; la contestata concessione della sala consiliare di Oggiono (Lecco) a un gruppo di musulmani per il ramadan (dopo la polemica, i musulmani restituiscono le chiavi al sindaco); gli attentati a colpi di bottiglie questa estate nella vicina Abbiategrasso.
Fin qui casi noti. Ma cosa accade quando il conflitto non supera i confini dell’attenzione territoriale? Abbiamo analizzato il caso di Magenta, cittdina di 23mila ab. dell’Ovest Milano, gli attori coinvolti, la rappresentazione del conflitto da parte dei media locali.
Descriviamo brevemente il caso: nel luglio 2006 l’associazione culturale Yaquta, espressione della comunità pakistana del magentino, affitta un capannone in una zona non centrale di Magenta. Il contratto stabilisce che «il proprietario autorizza il conduttore ad effettuare una attività di centro culturale e di oratorio». Il tentativo di ottenere un luogo di ritrovo era già fallito in comuni limitrofi. Il 7 settembre il settimanale locale «Città Oggi», distribuito gratuitamente casa per casa, si chiede: «Sta nascendo una moschea in città nel quartiere nord?». L’allarme è lanciato e, attraverso il resoconto approssimato dei settimanali locali, darà luogo a fantasiose descrizioni di una moschea frequentata da 3-400 pakistani rumorosi e maleducati. L’amministrazione comunale di centro-destra si schiera contro l’insediamento islamico e invia 23 multe identiche (successivamente annullate dal Tribunale di Rho) contestando violazioni edilizie e problemi igienico-sanitari; nella primavera arriva lo sfratto da parte del proprietario dello stabile. A prendere le difese dei pakistani è il Comitato di solidarietà con i migranti, legato agli ambienti politici di centro-sinistra del magentino. Inevitabile la politicizzazione dello scontro. Il Comitato offre assistenza legale a Yaquta e organizza iniziative volte alla conoscenza reciproca (ad esempio la «cena lumbard-pakistana»); sul piano comunicativo, si scontra violentemente con l’amministrazione e la Lega Nord, duellando sui giornali locali a colpi di comunicati stampa.
Questi ultimi, se analizzati, rivelano due opposte retoriche: quella del «noi contro loro» della Lega, che insiste sulla difesa dei nostri territori e dei nostri valori contro gli irrispettosi extracomunitari; e quella del «noi come loro» che esprime, nel Comitato, una duplice identificazione: come loro, noi siamo lavoratori; come loro, noi siamo (o meglio: siamo stati) migranti. Lo scontro è particolarmente forte durante la campagna elettorale che, nella primavera 2007, vede trionfare l’uscente giunta di centro-destra con quasi il 70% dei consensi.
L’attenzione dei media locali si placa, ma il caso si chiude prevedibilmente con la sconfitta dei pakistani, che perdono il ricorso contro lo sfratto.
Perché un capannone frequentato da 40 pakistani riesce a creare tutto questo clamore?
L'insediamento di comunità di immigrati musulmani genera sempre più spesso conflitti con le popolazioni locali, soprattutto quando si traduce in una richiesta di spazi. Quelle che vengono impropriamente chiamate “moschee”, e che in realtà sono più spesso dei centri culturali islamici, rappresentano il segno della visibilizzazione dell'islam sul territorio, come sottolinea Renzo Guolo, e attivano spesso la miccia del conflitto tra “comunità locali” e immigrati. Le moschee sono il segno anche di un passaggio dall'immigrazione economica (prevalentemente) all'immigrazione di popolamento (detto altrimenti: il musulmano da attore economico, venuto in Italia senza la famiglia e per lavorare, diventa presenza stabile e attore religioso, come ci ricorda Stefano Allievi).
Il filtro creato dai media nazionali opera fortemente anche sulle vicende locali. L’immagine del musulmano post 9/11 è talmente forte e radicata che agisce da sostrato sul quale si innestano giudizi e pregiudizi legati al caso in questione, senza che tuttavia si produca un vero e proprio dibattito sulla vicenda in oggetto: ad alimentare la polemica è un’immagine astratta del musulmano quale l’abbiamo costruita negli ultimi anni grazie a (o a causa di) eventi terroristici, interventi dal pulpito del Fallacismo o dell’anti-Fallacismo, kamikaze palestinesi, proclami di Bin Laden e suoi luogotenenti. Prima di valutare se i pakistani di Magenta stanno violando o meno la legge italiana, se hanno diritto o meno di riunirsi in preghiera, ognuno di noi ha già costruito dentro di sé un “musulmano immaginato” lontano anni luce da quello reale che vive nel nostro quartiere. Su questa prima, potente costruzione sociale se ne innesta una seconda, quella che emerge dalle fonte di informazione locale e dai protagonisti della nuova “battaglia di Magenta”.
Nella costruzione sociale di questo immigrato pakistano la conoscenza diretta ha un peso quasi irrilevante. Durante la nostra osservazione sul campo qualcuno ci ha raccontato di questi uomini con «barba, pigiamino e cappellino» che ogni tanto si vedono alle poste, in giro per la città.
Mentre la mappa del territorio lombardo si va riempiendo di «casi moschea», l’indagine empirica della vicenda di Magenta è stata per noi un’occasione di riflessione sul ruolo dei media, anche quando si tratta di giornali locali a limitata diffusione. Le fonti di informazione operano come grancassa del timore della popolazione, esaltando le voci stereotipate e relegando nell'oblio le posizioni dialoganti. Questo è il campo di un conflitto in cui la “posta in gioco” è la codificazione (Weber), la rappresentazione (Bourdieu): cioè i criteri di denominazione, rappresentazione e percezione: la componente «non massimalista» del Comitato non è rappresentata, così come la Chiesa; dei pakistani si parla senza che nessuno si prenda la briga di sentire il loro parere o fare una seria inchiesta su quel che avviene nella moschea; nei giornali prende corpo una presunta «voce del quartiere» che si leva contro i pakistani (ma alcune verifiche dirette da parte nostra ci hanno mostrato che alcuni residenti nella via della moschea non sapevano nemmeno della sua esistenza).
Come fare a non cadere in trappola? L’analisi della rappresentazione mediatica necessita di un lavoro di osservazione sul campo, l’unico che può far emergere sovra o sotto-rappresentazioni. La rappresentazione stessa della vicenda come un «campo» di conflitto, con relazioni di esplicita o tacita belligeranza o accordo, può essere uno strumento per raccontare i processi di semplificazione, mistificazione e distorsione di questo scontro, anche a chi non ha la pazienza (come voi) di ascoltare la noiosa ricostruzione dell’intera vicenda. Per decostruire, insomma, una rappresentazione monolitica che, come scrive Allievi, fa comodo «al giornalista, a cui consente di scrivere qualsiasi generalizzazione senza bisogno di verifica», così come «al politico, che su questi temi e su questo modo di affrontarli specula e costruisce le proprie rendite di posizione»; e, infine, «al destinatario del processo di comunicazione, che vede così confermati i propri pre-giudizi, e toglie la fatica di pensare in proprio».
La semplificazione, il demone della semplicità per dirla con Bergson, è il grande protagonista della rappresentazione del diverso: strumento potente che ci permette di ridurre la complessità, ormai difficilmente rappresentabile e quindi pensabile, di un reale, sempre più sconvolto da catastrofi ambientali, economiche, sociali.
In conclusione, ci chiediamo se questo tipo di analisi – un’analisi del campo del conflitto attraverso la sua rappresentazione mediatica, bilanciata con l’osservazione partecipante e interviste a testimoni privilegiati – possa avere una qualche utilità che vada oltre il semplice intento documentale.
Ciò che questa analisi mette in luce è che gli attori in campo competono per poste in gioco molto diverse: per i pakistani il diritto di riunione, di preghiera, ma anche la richiesta di visibilità sociale; per gli attori politici il mantenimento della propria posizione ai fini di un rafforzamento elettorale (Lega). Ma ciò che è in gioco è soprattutto la possibilità e la capacità di nominare, codificare, rappresentare: chiamare moschea un centro culturale islamico, creare panico nella città a dispetto dell’assenza di una minaccia reale, trasformare in una guerra di religione e in uno scontro tra culture quello che è una lotta politica tra schieramenti con opposte concezione del ruolo dell’accoglienza.
Fin qui siamo ancora su un piano accademico. Spostandoci, forse con troppa ambizione, sul piano della gestione del rapporto con l’immigrato, ci sembra che un’analisi di campo possa essere utile a verificare come agiscono gli strumenti istituzionali nei confronti degli immigrati. A livello legislativo, il caso Magenta pone dei dubbi sull’applicazione della legge regionale 12/2005; a livello amministrativo, le 23 multe inviate ai pakistani traducono un atteggiamento di chiusura e di rifiuto da parte delle forze politiche che governano la città, e il loro annullamento da parte del tribunale di Rho ne dimostra l’illegittimità. D’altronde, il colore politico dell’amministrazione è tutt’altro che ininfluente sull’esito delle vicende che vedono al centro dell’attenzione le moschee: lo dimostra il caso di Colle Val d’Elsa, analizzato da Fabio Berti e finito al centro delle cronache nazionale grazie agli interventi di Oriana Fallaci e di Magdi Allam. A Magenta l’amministrazione di centro-destra osteggia la moschea e nasce un comitato di cittadini pro-moschea; a Colle, specularmente, l’amministrazione di centro-sinistra appoggia la costruzione di una moschea, e il comitato si costituisce contro di essa. In ogni caso l’azione amministrativa, pro o contro, segna fortemente il corso degli eventi.
La Lombardia offre alle cronache e all’occhio della sociologia molte situazioni di tensione tra comunità locali e immigrati musulmani. Quella che ci chiediamo – la nostra proposta, insomma, tutta da discutere – è se un tipo di analisi così condotta possa essere uno strumento utile per costruire e leggere una mappa dei conflitti in Lombardia.
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